Ogni anno si stima che a livello globale vengano uccisi circa 100 milioni di squali, un dato probabilmente al ribasso che non tiene conto dei numerosi casi di pesca illegale non denunciati in tutto il mondo. Un trend insostenibile per l’equilibrio dell’ecosistema marino, che però non è certo una novità: recentemente infatti, una ricerca pubblicata su Nature da un gruppo di ricercatori internazionali ha evidenziato come negli ultimi 50 anni il numero degli squali e delle razze oceaniche sia diminuito del 70% –in alcuni casi, come per l’Oceano Indiano, questo dato aumenta fino alll’84,7%. In pratica, 3 specie oceaniche su 4 sono a rischio estinzione. Lo studio non lascia spazio a interpretazioni: la colpa di questo eccidio è dovuta ad attività antropiche, soprattutto all’eccessiva pressione di pesca esercitata per troppi decenni e alla pesca accidentale (detta bycatch) causata da reti a strascico o da palangari di superficie. Gli squali sono stati e sono tuttora, nonostante il declino, ricercati per la loro carne, per le pinne, considerate una prelibatezza nei paesi orientali, per l’olio di fegato e le placche branchiali usate nella medicina tradizionale cinese senza nessuna prova della loro efficacia o delle loro capacità nutrizionali. Il consumo di carne di squalo è una questione che riguarda in modo diretto anche il nostro Paese: l’Italia infatti, con un consumo annuo di 10.000 tonnellate, è il primo paese consumatore al mondo, e il terzo per importazione dopo Brasile e Spagna. Sono squali quelli che compriamo al supermercato con il nome di palombo, verdesca, spinarolo o gattuccio o che troviamo nei mercati rionali come cagnolo, vitello di mare, cagneto, missola, per citarne alcuni. Spesso quello che viene commercializzato come pesce spada è in realtà carne di squalo.
Il commercio delle loro pinne rappresenta un mercato estremamente redditizio e si traduce spesso nello shark finning (o “spinnamento”), una pratica che comporta il taglio delle pinne mentre l’animale è ancora in vita. Lo squalo viene quindi ributtato in acqua (anche per fare posto sul peschereccio a specie più pregiate come i tonni), andando incontro d una morte terribile per soffocamento e dissanguamento. Si tratta di una pratica atroce, che implica una sofferenza inutile e ingiustificata nei confronti dell’animale. Per anni Shark Alliance, un gruppo di organizzazioni internazionali fra le quali Marevivo, ha fatto pressione sulle istituzioni europee per un rafforzamento della legislazione sul prelievo delle pinne di squalo a bordo dei pescherecci europei, ottenendo nel 2013 che entrasse in vigore il regolamento “Fins Naturally Attached”, che prevede che le pinne dello squalo debbano rimanere naturalmente attaccate alla carcassa quando la nave viene scaricata nel porto, e solo successivamente potranno essere separate dall’animale ed esportate all’estero. Il regolamento vieta dunque senza eccezioni lo stoccaggio, il trasbordo e lo sbarco di tutte le pinne di squalo nelle acque e su tutte le navi dell’UE.
Tutto risolto dunque? Niente affatto, anzi. A fronte di pratiche illegali, le sporadiche ispezioni di pescherecci in mare non riescono a coprire l’effettiva quantità di pinne di squalo sbarcate illegalmente in Europa. In media ogni anno vengono ufficialmente esportate dall’UE poco meno di 3.500 tonnellate di pinne, per un valore complessivo di circa 52 milioni di euro.
Per questi motivi un gruppo di cittadini europei ha lanciato la petizione #stopfinningEU, chiedendo di estendere il regolamento “Fins Naturally Attached” anche all’esportazione, all’importazione e al transito di squali e razze in tutta l’Unione Europea. La petizione finora è stata firmata da 158.826 persone, un numero ancora troppo basso rispetto all’obiettivo di almeno un milione di firme necessarie per presentare la richiesta alla Commissione europea. Gli squali, infatti, sono predatori apicali e rappresentano un elemento chiave per il mantenimento dell’equilibrio di molti ecosistemi marini.
La loro scomparsa avrebbe indubbie ripercussioni non solo sulla consistenza degli stock ittici e sulla biodiversità, ma anche su tutti noi. Per anni sono stati ingiustamente accusati di rappresentare un pericolo per l’essere umano, ma i numeri ci dimostrano che siamo noi a rappresentare un grave pericolo per loro. Sembra quasi impossibile pensare che questi animali così maestosi possano correre il rischio di scomparire, ma è fondamentale la firma di chiunque abbia a cuore la salute del mare e del pianeta per scongiurare questa possibilità.