Del governo Draghi ormai sappiamo quasi tutto. Il presidente Mattarella lo ha voluto “di alto profilo” e “che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Adesso sappiamo anche i nomi dei ministri e quali partiti gli hanno garantito la fiducia. Manca solo un piccolo particolare: il programma. In proposito, il buio è totale. L’arcano si svelerà solo mercoledì prossimo al Senato.
Non credo di peccare di lesa maestà chiedendomi se ciò sia normale. Per avanzare supposizioni su quale programma di governo intenda mettere in atto il presidente del Consiglio, al momento, l’opinione pubblica può risalire solo a due interventi dello scorso anno di Mario Draghi: un articolo pubblicato dal Financial Times il 26 marzo 2020; e il discorso tenuto al meeting di Rimini il 18 agosto 2020. Nient’altro. Mi sembra un po’ pochino.
Ho molto invidiato il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, ospite insieme a me venerdì sera di una trasmissione televisiva, quando ci ha preannunciato che Draghi modificherà “in quattro o cinque punti” il piano per il Recovery Fund. Quali punti modificherà, non l’ho letto neanche sul suo giornale.
Orbene, non discuto la correttezza della procedura costituzionale secondo cui il programma di governo va illustrato davanti al Parlamento. Né oso mettere in dubbio l’autorevolezza del premier cui tutti rendono omaggio. Voglio sperare che nel corso delle consultazioni i rappresentanti di partito ne abbiano saputo di più; anche se le cronache riferivano di un Draghi taciturno, propenso ad ascoltare e prendere appunti piuttosto che a scoprire le carte. Resta il dubbio che anche loro gli abbiano dato fiducia a scatola chiusa.
C’è chi sostiene che l’Italia, per salvarsi, necessiti di un “dittatore benevolo”. Sarà, ma intanto la prima a venir sacrificata sull’altare della tecnocrazia è stata la trasparenza.