La prescrizione c’è in tutti i Paesi democratici, ma in Italia per alcuni profili è disciplinata diversamente. Ecco le principali differenze.
Primo. Solo da noi ci sono polemiche tanto accanite. Dipende dal fatto che i nostri processi durano un’enormità di tempo, il che causa centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno. Per cui quel che altrove è un rimedio fisiologico ai pochi casi che il sistema processuale non riesce a concludere (il tempo trascorso fa sì che per svariate ragioni non sia più “conveniente”), da noi è diventato un fenomeno patologico. Tant’è che la percentuale delle prescrizioni è del 10/11% in Italia, contro lo 0,1/0,2% degli altri paesi europei. Una débacle.
Secondo. La prescrizione in Italia decorre dal giorno in cui è stato commesso il reato. Negli altri Paesi invece può decorrere dal giorno in cui il presunto autore è stato individuato o dal primo atto di accusa. È evidente che i reati tipici dei “colletti bianchi” (evasioni fiscali, corruzioni, falsi, frodi, concorso esterno in associazione mafiosa…) sono di natura tale che di solito si possono scoprire solo dopo un bel po’ di anni. Ma intanto la prescrizione corre, un bel vantaggio per certi galantuomini.
Terzo. Essendo la prescrizione “facile”, c’è chi ne approfitta per allungare quanto più possibile “il brodo”, cioè i tempi di un processo già di per sé eterno, in modo da non pagare mai dazio arrivando alla prescrizione che tutto inghiotte. Ovvio che questo “meccanismo” favorisce non le persone accusate di reati comuni, ma chi può e conta, le persone “per bene a prescindere” in ragione della posizione sociale ed economica che consente loro di garantirsi difese di primo livello. Di nuovo i “colletti bianchi”, che non si sporcano le mani ma operano nel settore “ovattato” della criminalità dei potenti. Ne risulta una faglia profonda nell’uguaglianza dei cittadini. Vero è che la prescrizione è rinunziabile, ma è un fatto più raro della neve in Sicilia di piena estate.
Quarto. La possibilità di allungare i tempi del processo, fino a farlo svanire con l’agognata prescrizione, è figlia primogenita di un’altra nostra peculiarità. Pressoché ovunque il decorso della prescrizione a un certo punto si interrompe definitivamente (nel momento del rinvio a giudizio o con la condanna in primo grado), mentre da noi fino a poco tempo fa non c’era alcun blocco definitivo ma solo sospensioni temporanee. Ed ecco, in parole povere, che la prescrizione infinita favoriva i processi infiniti: quasi matematico.
Quest’ultima differenza è cessata il 1° gennaio 2020, con la norma (già inserita nella “spazzacorrotti”) che interrompe la prescrizione con la sentenza di primo grado. Finalmente, si direbbe, ci siamo scrollati di dosso un’imbarazzante zavorra riuscendo ad allinearci agli altri Paesi. Invece no! Le polemiche sono riesplose alla grande. E la parola esplosione è proprio quella giusta, se si pensa che un ex ministro della Repubblica (Giulia Bongiorno) ha salutato la riforma con la sobria formula ”una bomba atomica sul processo”.
Oggi le polemiche sono arrivate al punto di lambire il programma del neo-governo Draghi, e nel contempo si sono concretizzate in alcuni emendamenti alla “mille proroghe” che sarà discussa mercoledì.
Sarebbe indispensabile un bilancio sereno, spogliandosi quanto più possibile da schemi ideologici precostituiti e riferendosi piuttosto ad analisi concrete. Senonché è semplicemente impossibile calcolare gli effetti della riforma, perché il 2020 è stato un anno terribile, nel senso che il Covid ha stravolto tutto anche nel campo della giustizia, causando una pesante contrazione del numero dei processi trattati.
Come si fa a stabilire se la riforma è stata una bomba atomica o un petardo o niente di tutto ciò? Premesso che il vero problema è da sempre l’appello, che da solo “brucia” il 48% della durata totale del processo; per parte mia pensavo (e penso) che la catastrofica prospettiva di una pendenza perpetua del procedimento, non essendo più previsto un termine entro cui debba essere concluso, può semmai riferirsi ad alcuni soltanto e non a “tutti” i processi come vien detto. Comunque, sarebbe un rischio bilanciato dalla scomparsa dei troppi casi in cui prescrizione significa negare all’innocente l’assoluzione o regalare al colpevole l’impunità per processi passati al vaglio del tribunale, cioè quelli di maggior rilievo con una più forte esigenza di evitare un default dello Stato.
Ma rimane una mia idea, non verificabile allo stato degli atti. In ogni caso, la fretta e la voglia di tornare all’antico – senza possibilità di valutare in concreto il nuovo – appaiono quantomeno discutibili. Anche vincendo la tentazione di evocare ancora una volta gli interessi dei “colletti bianchi”.