Le intercettazioni, la loro utilizzazione sia processuale che mediatica, i presupposti che le giustificano sono state oggetto, negli ultimi anni, di ampi dibattiti, sia fra operatori del diritto, che sui mezzi d’informazione ed a livello politico. Infine sono state oggetto di riforme legislative. L’attenzione per tale materia ha un serio fondamento, poiché lo svolgimento delle intercettazioni, la loro utilizzazione processuale e la loro conoscenza pubblica, involvono, in una società moderna, fondamentali interessi e diritti: quello dello Stato, di accertare i reati e punire chi ne è responsabile, quelli delle persone coinvolte nelle intercettazioni, che hanno diritto a che il sacrificio della loro riservatezza sia contenuto nei limiti indispensabili all’accertamento dei reati, infine quello dell’opinione pubblica di conoscere i comportamenti devianti, soprattutto di chi è investito di responsabilità politiche, economiche, mediatiche. Ciò per esercitare in modo consapevole i diritti di critica, controllo ed infine di voto. Alla politica spetta trovare un punto di equilibrio fra queste confliggenti esigenze.
Obiettivo: attaccare le indagini
Tuttavia, di frequente, l’interesse manifestato sul tema delle intercettazioni è apparso strumentale. L’impressione è che spesso le polemiche, più che puntare a trovare un giusto punto di equilibrio fra esigenze d’indagine, di riservatezza e d’informazione, avevano piuttosto un altro bersaglio, quello di attaccare le indagini, di volta in volta, ritenute scomode. Delegittimare lo strumento – assai efficace – delle intercettazioni per delegittimare gli esiti delle indagini. E’ sotto gli occhi di tutti che molti politici ed opinion makers – non tutti, ovviamente – hanno sollevato il problema solo quando toccava qualcuno che gli era vicino, non quando, invece, era coinvolto un cittadino comune sottoposto ad indagine (un rapinatore, un sequestratore, uno spacciatore, della cui riservatezza, evidentemente, questi polemisti non sembrano essere interessati). Del resto non appare casuale, in proposito, il fatto che polemizzavano e polemizzano sull’uso “eccessivo” delle intercettazioni, gli stessi che, anni prima – quando le potenzialità tecnologiche dell’epoca non consentivano, come oggi, una utilizzazione efficace di tale strumento – con la stessa verve, polemizzavano su di un altro strumento d’indagine: i collaboratori di Giustizia. La cantilena dell’epoca era: quella Procura, quel PM fa un uso disinvolto (era “disinvolto” il termine) dei pentiti. Dipinti, a priori, da questi maitre a penser, come un pericolo peggiore dei mafiosi in servizio permanente effettivo, in realtà, semplicemente, e avrebbero attaccato – a prescindere, avrebbe detto Totò – qualsiasi strumento, anche le fotografie a raggi infrarossi, se avessero, ad esempio, immortalato qualche politico con un mafioso.
Il compito del giusto processo
Certo, la libera stampa deve pazientemente ed ogni volta chiarire (e questo stempererebbe le polemiche) che né i pentiti, né le intercettazioni sono, in sé, la prova esaustiva ed indiscutibile del reato e che compito del processo, è proprio quello di vagliare le risultanze di questi mezzi di prova – assolutamente indispensabili per avviare gran parte delle indagini di rilievo – al fine di verificare l’effettivo rilievo del loro contenuto. E così, non vi è dubbio, che le accuse mosse da un pentito possono essere inesatte, e, quindi, devono essere riscontrate da altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità; la conversazione intercettata potrebbe essere stata male interpretata da chi l’ha ascoltata oppure potrebbe corrispondere ad una vanteria, ad una millanteria di chi l’ha pronunciata ed allora bisogna verificare se quel fatto di cui parlano le persone intercettate è realmente successo e come è successo. Ma questo è fisiologico ed attiene, non al fatto se sia giusto o meno, legittimo o meno, utilizzare le intercettazioni (o i pentiti), ma, piuttosto, riguarda la stessa funzione del processo che serve a vagliare le prove.
L’equilibrio attuale
Avvicinandoci ulteriormente al tema delle intercettazioni, va, ancora, osservato che, allo stato, la normativa vigente, come modificata dalle leggi degli ultimi due anni, perfettibile come tutte le cose umane, rappresenta, a nostro avviso, il punto di equilibrio più avanzato in materia. fra le diverse esigenze. E’ previsto, ovviamente, che sia possibile intercettare solo per reati gravi (con pena prevista da cinque anni in su) solo se siano acquisiti elementi di prova (gravi per tutti i reati, o solo sufficienti per terrorismo, mafia e corruzione) e solo se necessario o indispensabile per le indagini. Soprattutto sono quattro, per sintesi, le grandi novità della nuova normativa in materia.
- è stato regolamentato l’uso del cd trojan secondo standard equilibrati ed in casi ben delineati;
- i reati di corruzione (e simili) sono stati equiparati ai reati di mafia e terrorismo per consentire, anche in presenza di questi gravi reati, un uso “agevolato” delle intercettazioni;
- è stata prevista, a tutela della riservatezza, una blindatura – cioè una impossibilità assoluta – di utilizzare e quindi pubblicare conversazioni che avendo ad oggetto vicende di natura privata o cd sensibili (relativi alle opinioni politiche, orientamenti sessuali, ecc) di chi è intercettato, non sono rilevanti per ricostruire i reati oggetto del processo;
- è stato dato ampio spazio alla difesa degli indagati per individuare le conversazioni rilevanti ai fini della ricostruzione dei fatti.
La rivoluzione della sentenza Cavallo
Tuttavia, di recente, proprio mentre era in corso la tribolata riforma delle intercettazioni, una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del Gennaio 2020 denominata Cavallo (dal nome dell’indagato ricorrente) ha affrontato una delle questioni più importanti sull’utilizzazione delle intercettazioni, ponendo PPMM e Giudici di fronte ad un nuovo orientamento (che seppure non vincolante ha un enorme peso nella pratica) che cambia e cambierà in modo radicale il corso e l’esito di moltissimi procedimenti, anche di grande importanza, che, prima della sentenza Cavallo, avrebbero avuto un certo esito, ma che, dopo la stessa, sembrano destinati, almeno in parte, a naufragare con il crollo delle accuse.
Il legislatore, dopo l’adozione di questa decisione della Cassazione, per la verità, ha tentato, un mese dopo, di arginarne le conseguenze, ma per una imperfezione (forse non voluta) del testo normativo, non vi è riuscito poiché, per tutti i processi nati prima dell’entrata in vigore della legge in questione (che è la legge nr 7 del 28.2.2020, entrata in vigore il 1.9.2020) valgono e continuano a valere i principi fissati dalla sentenza Cavallo.
Ma quali sono questi nuovi principi stabiliti dalla Cassazione?
Cerchiamo di spiegarlo in modo piano e semplice partendo da alcuni principi base del nostro sistema processuale; i fini giuristi storceranno la bocca, ma è necessario per chi non ha dimestichezza con le norme processuali.
L’utilizzabilità della prova e le garanzie per l’indagato
Nel nostro ordinamento è sempre valsa una regola fondamentale: quando si emette un qualsiasi provvedimento teso ad acquisire una prova ciò che è importante è che quell’atto, nel momento in cui viene adottato, sia legittimo, cioè rispetti tutti requisiti e le garanzie previste dalla legge. Se non li si rispetta i risultati di quell’atto non potranno, giustamente, essere utilizzati nel processo. Faccio un esempio: quando il PM interroga un indagato, il codice vuole che ne dia avviso al suo difensore affinché questi possa partecipare all’interrogatorio. Se il PM non avvisa il difensore dell’interrogatorio e se questi comunque non vi presenzia, tutto quello che dirà l’indagato in assenza del suo avvocato, sarà inutilizzabile, in primo luogo contro lui stesso. Anche se confesserà i fatti che gli sono contestati ed anche se questi fatti sono gravissimi (omicidi, violenze sessuali, ecc) non se ne potrà tenere conto.
Egualmente, se il PM emetterà un decreto di ispezione e questo sarà illegittimo perché non motivato o privo della indicazione dei reati per cui si procede o perché non seguito dall’avviso al difensore affinché possa partecipare alla ispezione stessa, anche se nel corso dell’ispezione saranno trovate fondamentali tracce del reato, non se ne potrà tenere conto, non potranno usarsi contro l’indagato.
Sono regole ferree poste a tutela e garanzia di chi è sotto processo e che, in qualche misura, hanno il benefico effetto di costringere i Giudici e i PPM a rispettare le regole del gioco senza cercare scorciatoie.
L’estensione del principio per ulteriori reati
Tuttavia, la nostra tradizione giuridica e normativa, al fianco ed insieme a questo principio di garanzia, ne ha sempre riconosciuto un altro: una volta che l’atto che tende ad acquisire una prova è legittimo e risponde ai requisiti di legge, tutte le prove che, in conseguenza di questo atto, si acquisiscono, sono utilizzabili, anche se riguardano reati diversi da quelli per cui si procedeva. Ci spieghiamo con un esempio: interrogo Tizio nei cui confronti procedo per spaccio di stupefacenti, gli faccio un regolare invito a comparire e ne do’ avviso come per legge al difensore che presenzia all’interrogatorio. Tizio nel corso dell’interrogatorio non solo confessa di avere spacciato droga, ma anche di avere rubato nell’appartamento del suo vicino di casa per comprare la droga. Nel nostro sistema processuale posso utilizzare questa sua confessione anche per dimostrare la responsabilità dell’imputato per il furto in appartamento. E ciò anche se nel momento in cui avevo disposto l’interrogatorio non procedevo per quel reato. Ancora: dispongo in modo legittimo una perquisizione nei confronti di un soggetto indiziato di rapina. Durante la perquisizione trovo però una stamperia di banconote false. Pacifico, e nessuno si è mai sognato di sostenere il contrario, che il PM possa procedere nei confronti dell’indiziato di rapina anche per la detenzione e fabbricazione delle banconote false anche se questo reato non era contemplato nel decreto di perquisizione.
L’equilibrio tra le garanzie processuali e il senso comune della giustizia
Questi principi, da sempre accettati nel nostro sistema, sono un ragionevole punto di equilibrio, fra garanzie processuali (il provvedimento che dispone la ricerca della prova deve essere legittimo e rispettoso della garanzie individuali, altrimenti le prove acquisite non valgono) ed un valore che spesso viene, ingiustamente, trascurato: il senso comune della giustizia, che vuole che non posso girare la testa dall’altra parte, fare finta che quella stamperia e quelle banconote false non c’erano, solo perché non avevo previsto che ci fossero. Così come non posso fare finta che lo spacciatore non ha confessato di avere rubato nell’appartamento del vicino, anche se l’interrogatorio era stato disposto per procedere in ordine ad un altro fatto.
La sentenza Cavallo e la rottura dell’equilibrio
Ecco, a nostro sommesso avviso, la Sentenza Cavallo, al di là delle obbiezioni di carattere tecnico che pure gli sono state mosse (ma che tuttavia non è questa la sede per trattare) ha rotto, nella materia delle intercettazioni, questo equilibrio fra rispetto delle forme e senso di giustizia, che, non solo, come appena visto, governa il nostro ordinamento in casi del tutto analoghi, ma che, a nostro avviso, nella applicazione della legge, va sempre perseguito: la giustizia si rende per rispondere alle esigenze degli uomini e non per rispettare teoremi giuridici.
Nel concreto, la Sentenza Cavallo – semplifico per rendere comprensibile la questione – afferma che, se io svolgo legittimamente delle intercettazioni (ricorrendone i presupposti e rispettando le norme di legge) per un certo reato (ad esempio un traffico di rifiuti) e nel corso delle intercettazioni stesse emerge che uno dei trafficanti ha indotto illecitamente una lontana parente anziana e mentalmente debole, a donargli tutti i suoi beni, non potrò procedere per questo nuovo reato (circonvenzione d’incapace) né potrò sequestrare i beni e restituirli alla poveretta, perché quel reato non era originariamente contemplato nel decreto d’intercettazione che autorizzava le attività. Si tratta di casi frequentissimi.
L’incidenza su migliaia di reati
Migliaia di reati diversi da quelli originariamente previsti sono emersi ed emergono nel corso delle intercettazioni e la Cassazione (salva una serie di eccezioni per i reati gravissimi, ma non per la corruzione, ad esempio, e salvo che non ricorrano certi particolari presupposti) stabilisce che, a fini di prova, quelle conversazioni è come se non ci fossero.
Come si vede, questo principio affermato autorevolmente dalla Cassazione in materia d’intercettazioni, sembra però non in sintonia, se non in antitesi, con quello che, come abbiamo visto, governa l’utilizzazione di tutti gli altri mezzi istruttori, talora anche più invasivi (quali ad esempio le perquisizioni), laddove si acquisiscano prove di reati diversi da quelli per cui si procede.
Dunque, al di là dei tecnicismi (mai, peraltro, come in questo caso controvertibili) nel caso di cui parliamo, il principio affermato dai Supremi Giudici, non sembra rafforzare la fiducia dei cittadini nella giurisdizione, poiché, alla sua stregua, la Giustizia appare vieppiù un abracadabra misterioso, così distante dalla realtà vera ed effettiva, da ignorare, con i suoi tecnicismi, anche i reati che le capita da accertare rispettando tutte le forme e le garanzie di legge.
A quale diritto riferisce la sentenza Cavallo?
Il processo serve ad accertare i fatti rispettando i diritti inviolabili dell’individuo. Per questo deve essere garantita la difesa in tutte le fasi e gradi del giudizio, per questo le accuse formulate devono essere chiare e circostanziate, per questo la difesa ha il diritto di contro-esaminare i testi di accusa e proporre ricorso contro le decisioni che ritiene ingiuste. Ma non ci è chiaro, e probabilmente non è chiaro a molti, a quale diritto dell’uomo corrisponda la pretesa che vengano ignorate prove acquisite nel corso di attività legittime disposte dall’Autorità Giudiziaria.
La legge deve essere uguale per tutti
Si dice, però, nel dibattito pubblico, da parte di chi polemizza ogni qual volta una indagine tocca certi livelli, che la Sentenza Cavallo impedisce la prassi incivile delle intercettazioni a strascico praticata dai pubblici ministeri. Bisogna darne atto, l’invettiva è ben studiata, è immaginifica e suggestiva e suggerisce nell’ascoltatore l’idea di un PM / pescatore di frodo che si industria all’infinito a sminuzzare, triturare, scandagliare la vita privata altrui fino a che non trova qualcosa. Essa, però, descrive una realtà che non esiste. E non tiene conto di un dato di fatto banale: le intercettazioni richieste dal PM sono, in primo luogo, autorizzate da un Giudice solo se ricorrano i presupposti di legge. Ma soprattutto l’autorizzazione vale solo per un limitato periodo di tempo (molto ridotto, da 15 gg a 40 gg) prorogabile solo se permangono i presupposti delle intercettazioni, vale a dire solo se le intercettazioni svolte hanno prodotto un qualche risultato rilevante. Altrimenti non possono essere prorogate, ma si interrompono. Niente “strascico” quindi. Già ora la legge prevede intercettazioni mirate e puntuali, che durano fino a che le stesse consentono di acquisire elementi di prova utili. Ma non solo. Quelle intercettazioni, sulla base della normativa ora vigente, che eventualmente non avessero prodotto prove di reati, non solo non possono, ovviamente, essere utilizzate nel processo, ma neppure divulgate. La verità, ancora una volta, è che si tratta di polemiche spesso strumentali, fatte sempre in favore dei soliti noti e che, al fondo, hanno di mira, un principio fondamentale, senza il quale amministrare giustizia diviene solo un atto di prepotenza, quello per cui la legge deve essere eguale per tutti.
*Procuratore Capo di Potenza