L’anno prossimo ricorrerà il centenario della nascita del primo parco nazionale italiano, il Gran Paradiso. Mentre ci prepariamo ai festeggiamenti per un’istituzione considerata modello, entrata nel 2014 a far parte della Green List delle aree protette (la prima certificazione a livello mondiale che riconosce efficacia ed equità nella gestione dei Parchi), assistiamo sconsolati ai ripetuti tentativi di smantellare la rete di protezione ambientale nazionale. Abbiamo costruito, cementificato, sfruttato ormai tutto il territorio a disposizione, non restano che i parchi e le montagne, altrimenti qui non si riesce più a crescere!
Dopo le vicissitudini del Parco dello Stelvio, vittima della politica delle autonomie locali, e le ricorrenti proposte di riformulare la legge 394/91 che regola l’istituzione e la gestione delle aree naturali protette, oggi la parola d’ordine per i parchi è: riperimetrare. Che naturalmente vuol dire ridurre. Abbiamo bisogno di altro suolo, da nord a sud, la natura ne occupa troppo.
Parco Naturale della Lessinia, Veneto. Nel luglio 2019 alcuni consiglieri regionali presentano una proposta di modifica dei confini, che prevede di tagliare circa 1.700 ettari degli attuali 10.000. La motivazione: “Necessità di supportare le imprese agricole, ma anche in generale la popolazione, sempre più interessate da dinamiche faunistiche in presenza di un’accresciuta consistenza di alcune specie di animali selvatici”. Tradotto, nuove strade e via libera ai cacciatori. In risposta, nel gennaio 2020 una marcia con diecimila persone sui sentieri innevati della Lessinia, sostenuta da circa 150 associazioni, per chiedere il ritiro della proposta di legge e discutere del futuro del Parco.
Parco regionale Sirente-Velino, Abruzzo. Nel giugno 2020 il vicepresidente della Giunta regionale abruzzese presenta un progetto di legge regionale sulla revisione dei confini dell’area protetta, anche in questo caso le motivazioni sono più o meno simili: l’invadenza dei cinghiali e le difficoltà per la ricostruzione post-terremoto, paventando “rallentamenti procedurali legati alla presenza dei centri abitati all’interno del perimetro del Parco”. Il Parco è commissariato dal 2015 e il suo Piano di gestione giace in Regione da tre anni ancora in attesa di approvazione, il suo perimetro ha già subito nel 2000 e nel 2011 il taglio di migliaia di ettari a cui ora se ne aggiungerebbero altri 8.000 sugli attuali 54.000.
In Liguria nel 2019 una legge regionale (bocciata dalla Corte Costituzionale nel luglio 2020) propone di ridurre di 540 ettari il territorio dei tre maggiori parchi naturali regionali, revocando la classificazione di area protetta regionale a 42 territori nel Savonese per un totale di oltre 22.000 ettari e bocciando definitivamente il progetto di realizzare il parco del Finalese, approvato da apposita legge nel 1995. Il motivo? “Così si ripopola l’entroterra”. Oggi il governo regionale ci riprova con una legge di bilancio per la quale gli enti locali interessati da una proposta di modifica delle aree protette si dovranno esprimere sul merito entro due settimane, introducendo il silenzio-assenso.
Al Parco regionale delle Apuane in Toscana la situazione è ancora più complessa: l’area protetta, istituita nel 1985, comprende al proprio interno gli insediamenti industriali delle cave di marmo. Per questo motivo la legge regionale 65/1997 ne riduce la superficie da circa 54.000 ettari agli attuali 20.598 ettari salvaguardando la presenza delle cave marmifere, classificate come “aree contigue”; purtroppo però queste aree contigue non sono adiacenti al Parco, cioè esterne al suo perimetro, bensì comprese all’interno del territorio protetto, che dal 2011 è entrato nella lista dei Geoparchi dell’Unesco.
L’Italia è forse il paese europeo con la maggior biodiversità per numero di specie e processi ecologici, ma il significato dei parchi deve andare oltre il valore della conservazione naturale. Le aree protette sono vissute come ostacoli allo sviluppo, e le amministrazioni vedono in loro solo il potenziale sfruttamento in termini di turismo. Ma di quale sviluppo parliamo? Oggi ci riempiamo la bocca con il Recovery Fund, ma qual è il significato di recovery se non recupero? E allora recuperiamo! Recuperiamo il dissesto idrogeologico partendo proprio dalle aree protette, dimostrando che i parchi possono e debbono essere considerati motori di sviluppo. Recuperiamo le strade interne, senza costruire nuove strade e realizzare trafori che servono solo a far fuggire più velocemente chi vuole andarsene, ma ripristinando la viabilità ordinaria delle aree di montagna. Recuperiamo la struttura sociale dei luoghi, recuperiamo i servizi -scuole, ospedali, uffici postali, trasporti pubblici- che sono stati tagliati pesantemente negli ultimi decenni. Recuperiamo il tessuto produttivo, aiutando le tante microimprese presenti sui territori e collegandole tra loro, perché i parchi e in generale la montagna non sono solo turismo ma anche artigianato, cultura, agroalimentare, governo del territorio. Dobbiamo creare le condizioni perché la montagna possa essere riabitata, vissuta, tramandata, e questo non sarà certo attraverso i grandi impianti sciistici o le speculazioni edilizie.
La tragica circostanza della pandemia ci offre l’occasione di ripensare ad un modello di sviluppo che deve rivolgersi ad orizzonti nuovi, puntare a obiettivi più attuali ed ambiziosi, utilizzando i mezzi di una modernità che unisce la tecnologia alla tradizione. Siamo figli dei nostri tempi e nipoti dei tempi passati. Lo sviluppo può ripartire dai parchi, se saremo capaci di coglierne le opportunità. Solo così potremo riportare nuova vita ai territori e a chi vi abita, attirando non più solo turisti ma visitatori e ospiti, tutti insieme consapevoli di un unico grande disegno di comunità e di solidarietà che si chiama nazione.