In cima a una salita, in un pomeriggio di agosto, in una stretta di mano ritrovo la mia infanzia. Se ne sta lì, all’incrocio tra il passato e un’offerta speciale per una vacanza, e mi chiama come un canto di sirena.
Non sono mai stata in questa rinomata località balneare, è la prima volta, ma all’improvviso, mentre mi trovo al largo, mi rendo conto che lungo la costa spicca come una visione nel deserto l’edificio in cui andavo in colonia da bambina. Ma è reale. E si trova lì, dove un cartello stradale sancisce la fine di un territorio comunale e l’inizio del successivo. Era una colonia gestita da suore negli anni Ottanta. Tanti bagni, tanto sole, numeri di Cioè rubati alle ragazze più grandi, scatoloni di costumi di carnevale a cui attingere per vestirsi da angioletti per le processioni. Momenti speciali che si sovrappongono, nella memoria, ai momenti spensierati di molte altre estati. Niente a che vedere con quella a cui penso da mesi, mentre scrivo un romanzo che parla di una colonia estiva, sotto il fascismo, durante la Seconda guerra mondiale.
Che coincidenza incredibile, mi dico, e nell’afa del pomeriggio infilo i sandali e vado. A piedi, seguendo la costa, sempre dritta, fino al punto in cui bisogna imboccare la salita.
Lungo il tragitto mi chiedo cosa farò, una volta giunta lì: meglio citofonare o limitarsi a scattare qualche fotografia? Squadrare tutto in cerca di un’ispirazione improvvisa o chiudere gli occhi e immaginare di tornare bambina?
Questo mi serve, più di tutto, di recuperare la sensazione di essere piccola, di trovarsi in un posto in vacanza tra decine di sconosciute, di dover obbedire a quelle donne adulte che sciorinavano regolamenti e infliggevano punizioni. Riesco a immaginare benissimo tutto questo nella vita delle tre bambine di cui ogni mattino scrivo un nuovo capitolo. Perse in mezzo alla guerra, a Marina di Massa, con il miraggio della mamma lontana, in Libia, e la fantasia a tenerle in piedi, insieme all’immagine leggendaria di un’amazzone a cavallo vista alla vigilia della partenza. Lo immagino ma poi, rileggendo i capitoli, mi sembra sempre che manchi qualcosa.
Perché è tutto facile e immediato, nell’immaginazione.
Ma è tutto difficile e sfuggente, nell’immaginazione.
Allora eccomi lì, a percorrere la salita, a celebrare una coincidenza, una delle tante che sembrano porte aperte verso la storia che voglio raccontare.
Tutto mi aspetto, tranne che di arrivare e trovare davvero una porta aperta.
Mi affaccio su un ingresso sobrio, una portineria dove siede una suora seria, imperscrutabile. C’è un silenzio quasi assoluto, lì dentro, è già come trovarsi in un’altra dimensione, la stessa delle storie, lontanissima dai turisti in infradito e le partite a pallone della spiaggia libera poco distante. Saluto, faccio delle domande, ma la suora imperscrutabile non risponde. Attirata dalla mia voce ne arriva un’altra. Le spiego che andavo lì da bambina e che avendo trovato la porta aperta ho pensato si potesse entrare. L’altra continua a non dire nulla e in qualche modo capisco che ha fatto voto di silenzio.
“Aspetti un attimo” mi dice l’altra, “le chiamo una persona.”
Così mi ritrovo davanti un’altra suora. Una donna minuta, esile, che ricollego subito a una novizia sorridente, con i capelli neri, che non ci sgridava mai. Lei mi fa accomodare nel refettorio, identico a come lo ricordavo, ancora con le finestre a pannelli scorrevoli, che noi bambine aprivamo di nascosto per buttare di sotto le pagnotte che ci obbligavano a mangiare fino all’ultimo boccone, in quantità spropositate, come fossimo in tempo di guerra a morire di fame.
Ci guardiamo.
Lei mi offre una bibita frizzante.
Parliamo poco, siamo due sconosciute, non sappiamo cosa dire oltre ai convenevoli.
Poi però mi dice che possiamo vedere anche le altre parti dell’edificio.
Com’era tutto enorme, nei pochi ricordi.
Com’è tutto stretto e minuto, ora.
Mi fa strada verso le scale.
E mentre le saliamo, in silenzio, mi prende per mano.
Un gesto insensato. Gli adulti non si prendono per mano. E io e lei siamo adulte, estranee, non abbiamo proprio nulla in comune. Tranne quel piccolo pezzo di passato.
Eppure con quel gesto lei mi regala la sensazione che cercavo. Qualcosa scatta dentro.
In un istante ricordo com’era trovarsi lì da bambina, sono di nuovo lì e bambina, alta la metà di lei, timida, insonne, e ogni volta che il treno passa corro al parapetto di marmo, a contare i vagoni dicendo “Pacco, lettera, visita, telefono”, il gioco di tutte le bambine della colonia estiva, che rivela ciò che ci mancava di più.
Entrambe iniziamo a commuoverci e così ci salutiamo in fretta.
Eccomi a scendere giù, verso la mia normalissima vacanza estiva, mentre mille sensazioni si fanno strada, pronte a trasformarsi in quelle di Sara, Margherita e Angela. Tre bambine in una lunga vacanza di guerra, mosse dal sogno di creature leggendarie come le amazzoni.