“Ricordatevi di noi, siamo morte in una fabbrica/sfruttate sul lavoro/sfruttate a casa e fuori”. Così una celebre canzone del teatro di strada, scritta nel 1974, ricorda le operaie morte in memoria delle quali sarebbe stato creato l’8 marzo. Secondo la vulgata italiana, infatti, la Giornata internazionale della donna sarebbe stata istituita dalla politica tedesca Clara Zetkin nel 1910, per ricordare la morte di alcune operaie – un numero che oscilla da 29 a 129 – avvenuta durante uno sciopero nel 1908. Forse a Chicago. Forse a Boston, oppure New York. In realtà, non è Clara Zetkin a istituire ufficialmente la festa (che viene infatti celebrata in Europa per la prima volta il 19 marzo 1911, in Russia il 3 marzo del 1913, in Francia a marzo del 1914). L’8 marzo nasce ufficialmente – ma come “Giornata internazionale dell’operaia” – undici anni dopo, nel 1921, alla Conferenza internazionale delle donne comuniste e per ricordare una manifestazione di operaie di Pietroburgo contro il regime zarista. Un’appropriazione un po’ indebita di una ricorrenza che non era certo solo comunista, come scrivono Tilde Capomazza e la partigiana Marisa Ombra nel celebre saggio 8 marzo. Una storia lunga un secolo (Iacobelli editore).
Ma soprattutto all’origine dell’8 marzo non c’è alcun incendio e in effetti ogni paese ha dato diverse spiegazioni delle origini della giornata: in Danimarca si ricorda uno sciopero di operaie tessili del 1857, in Francia e in Inghilterra sempre uno sciopero di operaie tessili, ma del 1880. Invece nel secondo dopoguerra in Italia la versione dell’incendio resta predominante, mentre le operaie della fabbrica Cottons diventano un mito, una sorta di leggenda. La ragione di questo falso storico c’è e sta nel fatto che il gruppo dirigente dell’Unione donne italiane (Udi), storica associazione femminista nata nel 1945, aveva paura “di mettere a rischio una festa ancora fragile. E preferì consolidare il rito”, a danno però, secondo Tilde Capomazza e Marina Ombra, della “verità e della complessità storiche”. D’altronde l’immagine dell’incendio è popolare, diventa addirittura, nel 1954, una storia a fumetti per la rivista Grand Hotel che allora vendeva un milione di copie. E poi l’idea del martirio delle operaie facilitava anche l’accettazione di una festa “di sinistra”, anche in altri ambienti, come quello cattolico, da sempre ostili alle celebrazioni.
La mimosa? Scelta solo perché pratica (ed economica)
Ma non solo sulle origini della festa le informazioni sono nebulose. Anche sulla mimosa, il fiore simbolo, poco si sa. Anzitutto, lungi dall’essere usata per questa ricorrenza nel mondo, è invece una scelta esclusivamente italiana. La suggerì la partigiana Rita Montagnana nel 1946: la scelta non era poi così vasta, perché allora le serre erano rare e gli aerei non portavano fiori dall’estero. A parte il garofano, da sempre segno di opposizione al fascismo, le scelte erano poche, soprattutto perché il fiore doveva essere facilmente reperibile e anche economico, perché i soldi erano pochi. La scelta ricadde sulle mimose non per un motivo ideale, ma solo per la praticità e il prezzo di questi fiori, che tuttavia hanno un successo enorme: invadono i manifesti, i volantini, le raccolte di firme per la pace. Vengono portati sulle tombe dei caduti, offerte ad attrici famose. Nel dopoguerra l’8 marzo diventa in realtà una festa in tutti i sensi: si va negli ospedali per portare dolci a malati e anziani, si fanno i tavolini sui mercati, ci sono sconti sui negozi.
Ma nonostante ben presto l’8 marzo sia diventato anche un giorno festoso e consumista, almeno fino agli anni Ottanta resta anche una festa serissima, dove circolano, già dagli anni Cinquanta, parole d’ordine come diritto al lavoro, piena partecipazione politica, assegni di maternità, pensioni alle casalinghe, accesso a tutte le carriere.
Negli anni Settanta la festa diventa apertamente femminista. Celebre l’8 marzo del 1972, con l’apparizione di Jane Fonda in piazza, ma anche quello del 1976, dove viene portato in piazza il fantoccio del patriarcato. E cambiano le parole d’ordine, o meglio a quelle storiche si aggiungono la liberazione sessuale, l’autocoscienza, l’oppressione lesbica, l’aborto, la contraccezione. Appaiono slogan senza peli sulla lingua come “Il Vaticano si gestisca l’ano, l’utero è mio e lo gestisco io”, “Ne uccide più lo sperma che la spada”, “Penetrazione, eiaculazione sono dell’aborto la vera ragione”, “Picchialo, sfruttalo, portalo in cucina”, “Compagni autonomi indiani fricchettoni siete sempre padroni”, “Abbasso Venere seduttrice, viva Venere liberatrice”. Sono gli anni delle gonnellone e degli zoccoli, anni in cui l’8 marzo non perde la sua anima battagliera, fermo restando quella festaiola.
Striptease e 8 marzo: l’illusione di essere emancipate
Cosa resta dell’8 marzo oggi? La retorica imperante prevede uscite con le amiche, e magari il dopocena in club privé per assistere a spogliarelli maschili. E se la tradizione di una cena senza uomini qualche vago fondamento storico ce l’ha – nel dopoguerra, le donne approfittavano della festa per andare a cena da sole: ad esempio nelle “cascine del cremonese”, ricordano Tilde Capomazza e Marisa Ombra, la “festa consisteva nel riunirsi a mangiare grandi pizze fatte con la farina di granturco, una cosa povera, pizza e vino, ma da sole” – nessun appiglio storico invece per lo striptease. Anzi, come ha notato la semiologa Giovanna Cosenza, “l’immaginario costruito intorno a queste serate è esclusivamente maschile, talmente maschile da essere gay”. Inoltre “questi riti hanno contribuito a sedimentare l’illusione che la parità tra uomini e donne è stata raggiunta e che le donne siano spregiudicate ed emancipate, perché mettono una banconota da cinque euro negli slip dello strip-man di turno”. Insomma la finta emancipazione di una sera, che conferma la corvée dell’anno intero. Corvée che, ieri come oggi, non è cambiata più di tanto. Anzi, è peggiorata con la pandemia, con le scuole mezze chiuse, i nonni fuori gioco, le donne costrette a lavorare da casa oppure senza più lavoro, mentre politici per lo più maschi e anziani decidono delle loro sorti. Insomma se l’8 marzo ha ancora un senso, nonostante le mimose fioriscano sempre prima a causa del clima cambiato, andrebbe ritrovato il significato originario della festa: quello di chiedere a gran voce diritti sociali ed emancipazione. Senza questo, cioccolatini, fiori e spogliarelli si colorano solo di mestizia.