“Non sono una donna da salotti. Frequento abbastanza la Libreria delle Donne di Milano ma lì si fanno delle buone cene, non è mica un salotto. Sono un’anarchica individualista”. Bianca Pitzorno nella sua carriera ha venduto due milioni di copie e guai a considerarla soltanto una “scrittrice per ragazzi”, ci priveremmo – noi adulti – di uno sguardo d’insieme e per nulla benevolo sul mondo. Anzi, come ci mostra il suo ultimo romanzo, Sortilegi (appena uscito per Bompiani), i mali che affliggevano la società del Seicento sono così simili ai nostri che basterebbe sostituire la peste con il Covid e la lingua con lo slang da social per trovarsi davanti una nuova caccia alle streghe. Due racconti, due giovani protagoniste, Caterina e Vittoria, unite dalla sfortuna iniziale, divise nei destini: la prima, torturata e uccisa perché accusata di sortilegi (a sua insaputa, visto che si è limitata a sopravvivere da sola alla peste che ha sterminato la sua famiglia); la seconda, vittima di un maleficio fatto ricamare su una tovaglietta del corredo nuziale e salva per il buon cuore di una bambina.
Dottoressa Pitzorno, ce le presenta?
Partiamo proprio da Vittoria. La cosa straordinaria è che quella tovaglietta esiste davvero: fa un po’ ridere, ma un po’ mette i brividi… Lo stilista Antonio Marras, riallestendo il padiglione etnografico del museo di Sassari, ha scelto dieci oggetti particolari per l’inaugurazione. Su ognuno di questi voleva una storia e io, da ricamatrice, ho scelto quella tovaglietta. Avevo studiato tempo prima una serie di saggi sulle Cartas de mozos: i documenti sull’affidamento dei trovatelli, che spesso avevano più fortuna dei figli legittimi dei pastori. Affidati alla balia, controllata una volta al mese, a sette anni diventavano apprendisti presso un artigiano. Quindi a 20 si trovavano un mestiere tra le mani. Siccome le balie tentavano spesso di sostituirli con i propri figli, il Consiglio cittadino decise di segnare gli orfani con un tatuaggio. La popolazione, però, insorse: i nostri mignonets non sono animali da marchiare. Così si scelse un orecchino, che poteva essere messo e tolto solo dall’orafo autorizzato. C’era un welfare per i trovatelli. Quindi la mia Vittoria è stata anche fortunata.
Caterina, invece?
Per tutta la parte del processo, dell’interrogatorio e dell’esecuzione mi sono ispirata ai verbali dell’Inquisizione che avevo letto. Mentre la famiglia sterminata mi viene da una lettera al padre di suor Maria Celeste, figlia di Galileo (che è stata anche la mia ispiratrice per la lingua, un personaggio delizioso che vorrei come amica). Ho immaginato che la bambina fosse sopravvissuta e che avesse, all’inizio, una storia neanche tanto infelice. È convinta che la Terra sia rimasta deserta. Perciò quando rientra in contatto con la società, se la ritrova nemica. Per di più non capisce l’accanimento contro di lei.
Possiamo dire che viene usata come capro espiatorio?
È l’emblema della paura del diverso. Presente e passato si somigliano: oltre alle epidemie, c’è sempre la ricerca di un responsabile. Pensi alla nostra religione: Gesù è stato sacrificato perché noi dovevamo espiare i nostri peccati. Forse è un’esigenza psicologica della società.
Sbaglio o un altro dei temi che emergono da Sortilegi è l’incapacità delle donne di “fare squadra”?
Sono le donne potenti che non fanno squadra per difendere il loro piccolo potere. Quelle povere, la ricamatrice e Vittoria stessa, sono solidali tra loro. Non credo che l’incapacità sia generale: ci sono donne che assumono i modelli maschili per non spartire ciò che hanno conquistato.
Mi sembra che nel racconto di Caterina ci sia un elemento molto personale: ho letto che anche lei, da bambina, andava per i campi a cercare erbe commestibili.
Finita la guerra, la Sardegna rimase isolata per tre anni per paura che i tedeschi avessero lasciato in fondo al mare sottomarini con bombe (pensi che ho conosciuto le bambole nel 1947, quando si aprì il primo negozio di giocattoli: per quel Natale me ne regalarono 8 in un colpo). Così dovevamo arrangiarci un po’. A mia madre piaceva molto camminare in campagna e ci insegnava a riconoscere le erbe. Alcuni nomi ancora me li ricordo: cardu mignoni, quello piccolo, e cardu piscia piscia, evidentemente diuretico; pabanzoru, il tarassaco; succiameli, sili kimma kimma.
Erano gli anni in cui la letteratura in Sardegna aveva un solo nome: Grazia Deledda.
In prima media la prof di italiano diceva (solo a noi femmine): “Appartenete a una stirpe eletta, non fate fare brutta figura a Grazia Deledda”. Eravamo abituate a guardare il mondo con i suoi occhi, ma quello di campagna, di paese; noi invece a Sassari eravamo cittadine, facevamo vita borghese di provincia. L’istinto era scrivere come lei, anche se quei pastori non ci appartenevano per niente. Ho sentito Michela Murgia lamentarsi perché Deledda a scuola si studia poco. È vero: per la sua generazione. A noi ce la propinavano a colazione, a pranzo e a cena. Ci si è appiccicata addosso con una tenacia tale che poi per scrollarcela e trovare una nostra voce personale abbiamo dovuto fare una fatica bestiale. Le posso raccontare due aneddoti poco conosciuti?
Certo.
Grazia viveva a Nuoro, la situazione delle donne lì era terribile. Avendo pubblicato qualche novella su giornali del continente veniva considerata una puttana. Le zie paterne andarono da sua madre: “Tua figlia è rovinata. È una peccatrice, non la sposerà nessuno”. Così lei ha cercato un marito continentale, un uomo straordinario, un funzionario che ha lasciato il proprio lavoro per fare il suo agente. In Sardegna non tornò quasi più. Anzi, fece arrivare a Roma la sua sorella piccola, Nicoletta, che divenne addirittura pittrice. Nessuno ne ha mai parlato. L’ho scoperto anch’io per caso grazie a una mostra.
Deledda è stata una delle 16 donne appena a vincere il Nobel per la Letteratura. Un premio maschilista?
Il Nobel è strano. Partiamo da un dato: tutti gli scienziati del mondo scrivono in inglese, gli accademici conoscono l’inglese. È più facile. Per la Letteratura dovrebbero leggere in lingua originale, ma non la comprendono. Allora leggono solo quelli tradotti in inglese o in svedese. Ma quante donne sono tradotte in inglese o in svedese? E poi le donne, a prescindere dal Premio, in letteratura sono sempre state penalizzate. Pensi a coloro che hanno dovuto firmare con pseudonimi maschili, perché era considerato peccaminoso scrivere. Sa qual è un personaggio che amo?
Quale?
Christine de Pizan, la prima donna che si è guadagnata da vivere scrivendo. Siamo nel 1300, Christine era figlia dell’astrologo di un re di Francia, che non aveva eredi maschi e si era adattato a insegnare qualcosa alla femmina. Lei scrisse: “Mi sono nutrita delle briciole che cadevano dalla tavola del sapere di mio padre”.
Abbiamo appena “festeggiato” l’8 marzo. Ha ricevuto mimose?
Non le vogliamo più le mimose: sembra che ce le diano in cambio di qualcosa. Sa cosa mi fa arrabbiare? La disparità di trattamento salariale. Oggi, con la competenza, la produttività, perché devi essere pagata meno? Una battaglia che sarebbe semplicissima da fare. Perché non si fa? Ne parliamo una volta l’anno, insieme con le mimose.
La dipendenza economica è l’altro lato della violenza, non trova?
La più grande libertà di una donna è dire: io non ci sto e me ne vado. Agli schiaffi deve rispondere andandosene, ma se non ha i soldi per pagarsi l’albergo non può farlo.
Le faccio una domanda che richiede una risposta coraggiosa: del panorama attuale delle scrittrici italiane, chi passerà alla storia?
È un discorso difficile, perché il successo immediato spesso non corrisponde al concetto di storia della letteratura. Trovo molto interessante Melania Mazzucco, una vera professionista: è costante nella produzione, varia i suoi temi e per ognuno di essi studia, si crea una competenza. Preferisco lei a chi utilizza le pagine di un romanzo per i propri problemi psicologici.
Dicevamo all’inizio: lei non mi sembra davvero una scrittrice che frequenta i salotti femminili borghesi…
Ho molte amiche donne, ma non credo nei “circoli” dove si creano gerarchie. Non amo il “verbo” imposto. Ho incontrato nella vita tanti uomini che mi hanno aiutato, rispettandomi. Sono stata fortunata, ho vissuto all’insegna della serendipità.