Ci voleva il governo dei “migliori” affinché si tornasse a parlare di conflitto di interessi in Italia. D’altro canto nemmeno il Berlusconi degli anni d’oro si era mai sognato di piazzare come sottosegretario alla Giustizia uno dei suoi avvocati. Ma nel governo dell’assembramento succede che le forze politiche che sostengono il governo chiedano a Renzi, sottovoce, di chiarire i suoi rapporti economici con i sauditi quando la sola cosa che andava pretesa erano le dimissioni.
D’altronde un senatore, già pagato profumatamente dal popolo italiano, che da Costituzione ha il dovere di rappresentare la Nazione e che, durante il suo mandato – nel bel mezzo di una crisi di governo da lui creata – va a Riyad per incensare il principe saudita, sospettato di essere mandante di un omicidio politico, e per incassare pantagruelici gettoni di presenza per la sua attività di conferenziere, non dovrebbe mettere più piede in Senato.
Ma siamo in Italia, il Paese in cui risolvere il conflitto di interessi è diventato diatriba politica e non un diritto da conquistare. Perché le istituzioni non saranno mai libere fino a che saranno infestate da portatori di interessi in conflitto. Alcuni palesi e scandalosi, altri nascosti o potenziali, ma potenzialmente più pericoli.
Da alcune settimane ormai, l’ex ministro dell’Economia Padoan non è più deputato. Ha lasciato la Camera e la commissione Bilancio per accomodarsi nel Cda di Unicredit di cui probabilmente verrà nominato presidente. Ciò significa che potrebbe trattare, per conto di Unicredit, l’acquisizione del Monte dei Paschi, la banca che proprio Padoan mantenne in vita con decreto. Con denaro pubblico, insomma. Tra l’altro Padoan, romano de Roma, nel 2018, un anno dopo aver salvato Mps è stato candidato dal Pd proprio nel collegio di Siena.
Padoan è uno dei tre ministri del governo Gentiloni ad aver lasciato lo scranno da parlamentare per accomodarsi su poltrone evidentemente più prestigiose e, forse, più remunerative. Gli altri sono Martina, ex ministro dell’Agricoltura passato alla Fao e Minniti, ex ministro dell’Interno e sottosegretario con delega ai Servizi che ha appena lasciato Montecitorio per dirigere la fondazione di Leonardo, colosso a partecipazione statale che si occupa di sicurezza, stesso campo del Minniti ministro.
Padoan non è l’unico ex ministro dell’Economia a passare alle banche private. Degli ultimi dieci, cinque hanno avuto a che fare con i colossi finanziari. Anche Saccomanni, recentemente scomparso, ministro dell’Economia nel governo Letta, una volta lasciato il Mef è andato a presiedere il Cda di Unicredit. Poi ci sono Grilli, Siniscalco, Fantozzi e Mario Monti. I primi due, esattamente come Mario Draghi, passarono dalla direzione generale del Tesoro alle banche d’affari. Siniscalco, ministro dell’Economia durante il secondo governo Berlusconi, uscito dal ministero divenne managing director e vicepresidente di Morgan Stanley, la banca d’affari con la quale lo Stato aveva sottoscritto contratti capestro sui derivati negli anni 90. Vittorio Grilli, ministro dell’Economia con Monti, nel 2014, venne assunto da JP Morgan come presidente del Corporate & Investment Bank. Augusto Fantozzi, ministro delle Finanze del governo Dini, è poi diventato senior advisor della banca d’affari Lazard. Mario Monti, uno degli ultimi otto presidenti del Consiglio, è fra i tre con un passato in Goldman Sachs. Gli altri due sono Prodi, consulente per la banca d’affari Usa dal 1990 al 1993 e Mario Draghi, assunto in Goldman Sachs dopo aver fatto il direttore generale del Tesoro e aver avallato privatizzazioni e fusioni tanto care proprio alle merchant bank internazionali. Sono esempi di revolving door, porte girevoli tra istituzioni e settore privato. Esempi pericolosissimi, ancor di più oggi in piena crisi economico-finanziaria.
Nel 1933, negli Usa che ancora soffrivano le conseguenze del crollo di Wall Street del ’29, il Congresso approvò il Glass-Steagall Act, una legge che separava le banche d’affari da quelle commerciali, per ridurre le attività di speculazione finanziaria. La legge restò in vigore fino a quando, nel 1999, con la presidenza Clinton, venne abrogata. Uno degli artefici dell’abrogazione, e dunque del “liberi tutti” al sistema finanziario, fu Robert Rubin, Segretario al Tesoro che aveva lavorato 26 anni in Goldman Sachs.
Affrontare il tema del conflitto di interessi, oggi ancor più di ieri, non significa essere anti-berlusconiani, ma amanti della Costituzione. Quella Costituzione che tutela il risparmio. Risparmio colpito anche dalle scelte di politici che di politica si interessano sempre meno e che, in molti casi, sono diventati sponsor del governo dei migliori. Sì migliori, dipende per chi.