Enrico Letta è la dimostrazione vivente che un periodo di astinenza dal potere giova a chi crede nella politica democratica, sempre che sia portatore di idee valide. Sei anni fa si era dimesso da deputato, autoimponendosi una dieta o, se si preferisce, una pausa di riflessione culturale. Inutile dire che tale dieta sarebbe risultata altrettanto salutare agli onnivori capicorrente che oggi invocano il ritorno di Letta. Gli stessi che all’epoca gli preferirono Renzi e lo pugnalarono alle spalle. Nel frattempo costoro si sono curati prevalentemente di conservare il proprio ruolo nel governo e in Parlamento. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Come minimo, prima di accettare l’investitura, Letta dovrebbe chiedere che gli artefici di tale disastro introducano l’Assemblea nazionale del Pd officiando sul palco un pubblico autodafé.
So di essere ingenuo a immaginarlo. Malridotti come sono, essi immaginano la segreteria Letta come scelta provvisoria e conservativa. Il classico ricorso all’“usato sicuro”. Rimpicciolire tutti insieme senza perdere lo spazio acquisito e confermando, grazie anche alla biografia autorevole dell’ennesimo segretario, che restare al governo è la loro assoluta priorità. Mal dissimulata con richiami al senso di responsabilità.
Un partito invecchiato precocemente, e già sfinito, rivela così – sia detto con tutta la stima che Letta merita – di temere le incognite del rinnovamento. Ha paura del salto nel buio, di investire sulle donne e sui giovani, che magari hanno lottato per trasformare la società, ma non hanno mai governato. In fondo basterebbe far tesoro delle lezioni della storia: in Italia ha contribuito assai di più al miglioramento delle condizioni di vita dei più deboli il partito di sinistra rimasto sempre all’opposizione, che non il Pd insediato dacché esiste quasi sempre al governo.