Il 2020 è stato un anno cruciale per i grandi gruppi petroliferi, che hanno definitivamente perso la battaglia del cambiamento climatico e lo sanno. Dopo aver speso centinaia di milioni di dollari per contestare tutti gli studi in materia di ambiente, compresi i rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), e per contrastare ogni movimento e politica ecologica, le grandi compagnie petrolifere sono ormai costrette a riconoscerlo: il cambiamento climatico non può più essere negato. Dunque so sono lanciati in un’altra battaglia: quella della transizione ecologica.
Da un anno o due, chi più chi meno, BP, Shell o ancora Total hanno annunciato che avrebbero adattato le proprie strategie. Lo statunitense ExxonMobil, il cui ex amministratore delegato Rex Tillerson è stato segretario di Stato di Donald Trump nel 2017-2018 e capofila degli scettici del clima, è stato l’ultimo a capitolare. Nel 2020, ExxonMobil ha ammesso che il cambiamento climatico è una realtà, ma era obbligato a farlo: uscendo dall’indice Dow Jones nell’agosto 2020, il gigante del petrolio rischiava infatti di rimanere tagliato fuori da alcuni mercati di capitali, dal momento che sempre più fondi hanno fatto dell’impegno in materia ambientale uno dei criteri di selezione dei propri investimenti. Nel 2020 tutti i gruppi hanno registrato perdite colossali: più di 22 miliardi di dollari per ExxonMobil, 21 miliardi per Shell, 20 miliardi per BP, quasi 8 miliardi per Total. I primi otto gruppi petroliferi occidentali hanno annunciato perdite complessive per 89,4 miliardi di dollari nel 2020. Sono numeri senza precedenti. Gran parte di questi passivi sono legati al deprezzamento degli attivi. Con il barile a 20 dollari, o meno, all’inizio del lockdown mondiale della primavera 2020 e per settimane, molte attività di esplorazione e produzione non erano più redditizie. Ma alcuni gruppi ne hanno approfittato per cominciare a modificare il loro approccio e ripulire i bilanci discutibili. Total ha così svalutato di diversi miliardi la sua attività nelle sabbie bituminose del Canada, attività destinata a scomparire a più o meno breve termine. Bp ha accantonato una parte delle sue attività di esplorazione meno redditizie per poterle rivendere meglio. Shell ha fatto lo stesso.
Un po’ alla volta, insomma, le compagnie si separano dagli attivi meno redditizi, nel mare del Nord, nel Sahara egiziano, in Canada o in Angola. Siamo solo all’inizio di questo processo. Tutti promettono che stanno cambiando, che da inquinatori diventeranno ambientalisti. Shell assicura che raggiungerà la neutralità carbonica entro il 2025, Total entro il 2030, ExxonMobil si è fissato l’obiettivo per il 2050. Se hanno perso la battaglia del riscaldamento climatico, i grandi gruppi del petrolio intendono invece vincere la guerra della transizione ecologica, imponendo i loro punti di vista e le loro tecnologie, in modo tale che, se in apparenza tutto sarà cambiato, loro conserveranno una posizione di dominio nel mondo dell’energia. A questo proposito, la differenza di approccio delle compagnie petrolifere europee rispetto alle concorrenti statunitensi è piuttosto significativa. I gruppi europei hanno ammesso molto prima degli altri il riscaldamento globale e i cambiamenti che esso implica. Già nel 2018 il gruppo britannico Bp aveva avvisato che il consumo mondiale di petrolio, che aveva raggiunto i 100 milioni di barili al giorno, era di sicuro al suo picco e che era necessario ormai adeguarsi a un mondo senza combustibili fossili. Per questo prevede di ridurre del 40% la sua produzione di energia fossile entro il 2030. Sull’esempio di Bp, tutti i gruppi europei vogliono ormai diventare i paladini delle energie rinnovabili. Impianti eolici offshore, parchi solari e idrogeno sono al centro di aspre battaglie tra i numerosi concorrenti. Nel 2020, Total ha investito più di 2 miliardi di dollari nel settore delle rinnovabili per più di 10 GW di capacità produttiva. Se si considerano la sua partecipazione nella società Adani Green Energy Limited e gli altri progetti, il gruppo si troverà a capo di un portafoglio di 35 GW di energie rinnovabili entro il 2025, superando tutti i suoi principali concorrenti. In futuro Total non si vede più come un fornitore di petrolio o di gas ma come un fornitore di tutte le energie, a eccezione del carbone e del nucleare. E intende sottolineare questo cambiamento sin dalla prossima assemblea generale del gruppo cambiando il suo nome in TotalEnergies.
Shell, Bp, Eni stanno seguendo le sue orme. Questa strategia finanziaria, che consiste nell’acquistare degli impianti rinnovabili in tutto il mondo per pervenire a un equilibrio nella neutralità carbonica, è discutibile per molte associazioni ambientaliste. In sostanza, questa strategia, sostengono le associazioni, invece di cambiare le abitudini, modificare i comportamenti, i consumi, i modelli di produzione, come sarebbe necessario per operare una vera transizione ecologica, intende solo stabilire un saldo contabile tra, da un lato, le emissioni di carbonio legate alle attività tradizionali e, dall’altro, la produzione rinnovabile. A questo punto potranno fare bella mostra del risultato di “zero emissioni” così ottenuto. Una strategia che i gruppi statunitensi spingono ancora oltre, tenuti a rendere conto a un’opinione pubblica sempre più sensibile alle questioni climatiche e alla nuova amministrazione Biden, che ha fatto della transizione ecologica uno dei pilastri della sua politica. Tuttavia, secondo loro, la fine del petrolio e dei combustibili fossili non è imminente. Lo hanno ribadito i dirigenti di ExxonMobil e ConocoPhillips in un recente meeting sull’energia in Texas. Per loro, a dispetto di quello che dicono gli esperti, il mondo avrà ancora bisogno di petrolio nei prossimi anni e per questo il loro programma è piuttosto quello di accrescere la produzione e gli investimenti nell’esplorazione. Al tempo stesso, sanno però che la neutralità carbonica è diventata determinante per molti fondi di investimento. Come conciliare le due cose?
Per i gruppi petroliferi statunitensi la soluzione non va cercata nell’eliminazione dei combustibili fossili, ma nell’eliminazione delle emissioni di carbonio. Puntano cioè a sviluppare tecnologie e impianti di stoccaggio del carbonio. Le prime esperienze in questo campo non sono state soddisfacenti, ma le aziende americane sono convinte di disporre di tecnologie e mezzi finanziari sufficienti per riuscirci. E se ciò non dovesse bastare, c’è sempre la tecnica della compensazione. Per compensare le proprie emissioni di Co2, si annunciano già progetti di riforestazione in tutto il mondo. In Inghilterra, Greenpeace ha fatto alcuni calcoli: i soli progetti di riforestazione proposti dalla compagnia petrolifera italiana Eni per compensare le sue emissioni di Co2 dovrebbero rappresentare il 6% della superficie terrestre. Cumulando tutte le misure analoghe proposte dalle maggiori compagnie petrolifere per compensare le loro emissioni, non è sicuro che l’intera superficie del pianeta sarebbe sufficiente. I gruppi americani si aspettano molto dal governo per sostenerli in questa transizione. Se si sono mostrati fortemente ostili a qualsiasi sorta di carbon tax, ora chiedono invece l’inasprimento dei mercati delle emissioni. Ai loro occhi la misura ha molti vantaggi: dovrebbe permettere di eliminare i concorrenti più deboli, incapaci di sostenere i costi aggiuntivi; dovrebbe anche permettere di evitare qualsiasi regolamentazione governativa poiché sarà il mercato a regolamentarsi. I governi possono respingere le proposte delle compagnie che non sono all’altezza della sfida climatica? In passato si sono mostrati deboli nei confronti delle compagnie e la storia rischia di ripetersi. Il punto è che gli uni e gli altri condividono la stessa visione del cambiamento climatico, convinti che sia possibile gestire la natura e che la tecnologia possa fornire i rimedi per mantenere il sistema esistente.