A due anni e mezzo dal primo e solitario sciopero di Greta Thunberg. A un anno dai primi giorni di lockdown e dall’inizio di un distanziamento sociale che per adesso non accenna a finire. Con centomila morti solo in Italia, e quasi tre milioni in tutto il mondo. Nel pieno di una crisi economica che, come tutte le crisi, sta colpendo più duramente le fasce più deboli. Quindi l’insediamento, nel conformismo mediatico dilagante, di un vero e proprio “governo dei migliori”. Come un flusso continuo, senza il ricordo di straordinari fotogrammi, ci è passato davanti tutto questo.
Ma siamo ancora qui, ancora nelle piazze, ad alzare “puerili” cartelloni che con un linguaggio semplice ma (a quanto pare) efficace, vogliono solo far riemergere dall’inconscio collettivo ciò che già più o meno tutti sappiamo: che la crisi climatica è già in atto, che sta sfondando le nostre porte senza premurarsi di bussare. Che sta forse sorridendo di una politica che la tiene sempre sulla bocca senza dimostrare mai il coraggio di affrontarla veramente.
Poche settimane fa infatti l’UNFCC (Convenzione quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici) ha denunciato con un report l’inerzia dei governi nel contrasto alla crisi climatica: rispetto all’obiettivo di riduzione delle emissioni di CO2 del 45 % entro il 2030 e del 100% entro il 2050, ribadito con la sottoscrizione degli accordi di Parigi nel 2015, gli Stati riusciranno a raggiungere soltanto una riduzione dell’1% delle emissioni entro il 2030. Questo perché solo 2 dei 18 maggiori emettitori globali (Unione Europea e Regno Unito) hanno presentato dei piani aggiornati di riduzione delle proprie emissioni (NDCs). Mentre gli altri latitano. E così anche l’obiettivo minimo (per i governi) di restare sotto i 2°C di aumento della temperatura media globale rischia di diventare un miraggio. Figuriamoci quello minimo (per la scienza come per il nostro movimento) di restare sotto il grado e mezzo.
Se non altro la percezione della crisi climatica, in questi quasi 3 anni di attivismo, è nettamente aumentata. Lo conferma una ricerca svolta per lo United Nations Development Program (UNDP) che ha coinvolto più di 50 Stati. Il 64% dei partecipanti ha sostenuto che la crisi climatica è effettivamente un’emergenza, pretendendo maggiore efficacia nel contrastarla. I più convinti sono i cittadini europei e nordamericani, con il 72% che crede vi sia un’emergenza climatica, mentre la percentuale scende tra il 61% e il 65% per chi abita nel resto del mondo. L’Italia la spunta con l’81%: la percentuale più alta, a pari merito con il Regno Unito, fra gli Stati considerati.
Un simile trend di aumento è stato confermato anche da una ricerca dell’istituto Demopolis, che ha registrato una crescita di 20 punti nella percezione dell’emergenza climatica nell’ultimo decennio, con il picco del 63% nel 2019.
Il divario fra i due dati si spiega in due parole: mentre la ricerca di Demopolis tiene conto dei soli maggiorenni, quella dell’UNDP interessa anche la fascia compresa fra i 14 e 18 anni: i ragazzi che in questi ultimi anni hanno alzato la voce contro l’inerzia della politica e delle istituzioni, come dei privati e dei grandi emettitori.
Tra i quali si annovera la ben nota Eni, che già investe decine di milioni di euro ogni anno per diffondere una narrazione distorta del contrasto all’emergenza climatica: “Eni + Luca , Chiara, Silvia, ecc”, spot difficili da non incontrare alla fermata dell’autobus o fra le pagine dei quotidiani, e che propongono un virtuosismo individualistico di cambiamento delle proprie abitudini (“usare meno la macchina” ecc.) come soluzione a una crisi che richiede soluzioni globali, pubbliche e collettive. Come a dire che la capacità di incidere del singolo individuo sia identica a quella di una multinazionale che ha chiuso il 2019 con un ricavo di 71 miliardi di euro.
Un’azienda di cui lo Stato è oltretutto il maggiore azionista (30% di quota) e che è un imprescindibile punto di partenza per il nuovo governo per attuare la transizione ecologica di cui molto si è parlato in queste settimane e per la quale è stato costruito un ministero ad hoc (niente di nuovo, l’Ue lo chiede da anni e molti stati ci hanno battuto sui tempi) guidato da un autorevole scienziato, un fisico in carriera, che non ha all’attivo però nessun precedente impegno sul clima. Al contempo c’è una Climate Law che prevede l’azzeramento delle emissioni entro il 2050 e la riduzione del 55% entro il 2030: un insufficiente risultato europeo, ma pur sempre un notevole progresso da attuare, che sarebbe stato impensabile anche solo fino a pochi anni fa. Quindi i famigerati 209 miliardi del NextGenerationEU da investire. Il punto interrogativo, non chiarito dalla subalternità intellettuale a tale governo e al suo reiterato “europeismo” (di quale Europa si tratta? Dei nuovi ricchi o degli oppressi?), resta fondamentalmente uno. A chi guarderanno con favore queste politiche? A quale ponte della “stessa barca” su cui, come erroneamente si dice, al momento tutti ci troveremmo? Alla prima o alla terza classe? Ai finanzieri o agli operai e ai nuovi proletari? Ai bacini di consenso immediato o ai giovani e alle future generazioni che non voteranno alle prossime elezioni politiche (ma il cui futuro sarà condizionato dalle scelte prese oggi)?
Dilemmi forse insolubili, ma ai quali si oppone l’urgenza di affrontare la crisi climatica e di farlo attuando una transizione ecologica che si informi a un sostanziale principio di giustizia sociale.
È per questo che il 19 marzo, come di consueto un venerdì, Fridays For Future tornerà a farsi sentire al grido di #NoMoreEmptyPromises (Basta vuote promesse).
A Torino, per colmare le giustificate assenze di migliaia di studenti, verrà creata una installazione con migliaia di cartelloni che circonderanno la scritta “Basta vuote promesse”. Molte altre città, piccole, medie o grandi, si preparano a organizzare presidi in sicurezza e nel rispetto del distanziamento sociale. Webinar si programmano su ogni piattaforma, con approfondimenti di economisti, climatologi, sociologi e giornalisti. La crisi climatica non aspetta. Non possiamo più fermarci per ricevere pacche sulle spalle da chi della fatuità ha fatto un’arte lautamente retribuita.