Avevo 17 anni e prima di uscire con un ragazzo, mio padre mi afferrò il braccio e mi disse: “Prendi questi.” Erano 50 euro, e poi aggiunse “Se paghi tu, sai quanto costa; se pagano gli altri, non sai mai quanto ti costa”. Racconto sempre questo aneddoto con grande orgoglio perché mio padre è del 1944 e quella frase mi scioccò. Se da una parte colsi l’affetto con cui mi stava lasciando libera di frequentare chi volevo, nonostante le consuetudini generali del mio paese natale, dall’altro fui sconvolta nel realizzare che mi stesse mettendo delicatamente in guardia sul fatto che quel ragazzo avrebbe potuto pensare che dovessimo finire a fare del sesso quella sera, dopo avermi offerto la cena. Quante assurdità ci sono scritte nell’ultima frase, eh?
Eppure è impressionante come noi tutte, in diversi modi, siamo state sottoposte fin da piccole a fare i conti con il peso di una discriminazione di genere che è radicata nel percorso educativo delle donne italiane fino ad arrivare al significato vero e proprio delle parole. Nonostante le parole e il sottotesto di quella conversazione con mio padre, vorrei, prima di procedere, dire che mi ha cresciuta libera e che ogni giorno si è chiesto chi fossi diventata, senza mai guardarmi come un modello ideale di figlia; allo stesso tempo che quello non fu il primo episodio in cui mi sentii trattata diversamente da un’altra persona di sesso maschile, che è cominciato tutto quando avevo più o meno 4-5- anni, che la mia famiglia era il luogo più moderno dove passare il tempo e che per molti anni ho cercato di somigliare quanto più possibile a un maschio per apparire credibile, forte e determinata agli occhi di tutti e, prima ancora, di me stessa, negando la mia natura di femmina e odiando il mio corpo.
Solo dopo molti anni ho dato un nome alle esperienze che ho vissuto e, passata la rabbia o l’indignazione, ho ripreso in mano la mia vita. È stato un percorso lungo che ha richiesto molti sforzi e sincerità. Forse, se quello che sentiamo avesse un nome ben preciso, avremmo tutti una strada battuta da poter percorrere più facilmente. Molte emozioni che ho provato, e che provo, prendono solitamente la forma di una canzone, altre di poesie e pagine del mio diario. Quello che so di certo è che le nuove generazioni, le ragazze e i ragazzi tra i 15 e i 20 anni , oggi, sono molto più consapevoli e liberi da schemi di quanto non lo fossi io e sentono il bisogno di dare un nome alle cose, agli atteggiamenti sociali e alle emozioni per definire ciò che accade loro, in maniera pulita e per comprendere meglio la società in cui
vivono e che vorrebbero prendere a morsi. So che le donne che lavorano nell’industria musicale mondiale sono solo il 20%, che nei cartelloni dei festival ci sono tra lo 0 e il 15% di artiste donne, che il piacere sessuale è ancora una linea sottile attraverso la quale veniamo giudicate brave o non brave ragazze, che una cantautrice in Italia difficilmente può avere i capelli sporchi e indossare una felpa per cantare su un palco nazionale o scalare le classifiche di Spotify; ed è per questo che ho scritto “Come vorrei”, “Semplicemente e basta”, “Adesso tocca a me”, e che ogni martedì alle 21.15 parlo in diretta sul mio profilo instagram con diversi ospiti di discriminazione di genere. Il dibattito e la condivisione posso rivoluzionare il significato delle parole.
Grazie papà.
DALISE è il nome d’arte di Maria Teresa D’Alise, cantautrice e interprete. Nel 2015 vince il Festival di Castrocaro con il brano “Nuvole nella testa” e si aggiudica il primo posto anche al Festival della canzone italiana a New York, poche settimane più tardi. È la stella di “The Voice of Italy 2018”. Partecipa a programmi tv come “Scanzonissima”, “B come Sabato” e canta per la maratona Rai di Telethon.Lo scorso novembre pubblica un nuovo singolo dal titolo “Come vorrei” (The Web Engine)