A volte è più chiara la lettura del corpo delle parole stesse; o la lettura del corpo anticipa di qualche secondo i concetti, che diventano solo una conferma.
Lucrezia Lante della Rovere prima di rispondere arriva a contorcersi sulla sedia, accavalla le gambe, gioca con il maglione, intreccia le braccia, guarda altrove in uno show di mimica rara, di chi soffre a rispondere alle domande (“Non sono in grado, ho sempre dei dubbi”); e così, subito, dopo il garbato benvenuto (“Un caffè? Dell’acqua? Ho preparato il guacamole”), vuoi per prendere tempo, vuoi per un riflesso condizionato forse nato insieme al suo primo vagito, indica un vaso poggiato in cucina, immerso nei fiori, nel punto più luminoso. Sopra il vaso c’è un cappello bordeaux, piccolo, grazioso, con una piuma di lato: “Lì c’è mamma”. In cucina? “Si sieda davanti a lei”.
Bel cappello…
Ne aveva una collezione pazzesca, circa 300, ma li ho venduti quasi tutti, e il ricavato dato in beneficenza alla Fondazione Veronesi, dove si è curata per sedici anni. Umberto è stato un suo grande amico. Poi ci sono le scarpe, peccato che non avevamo lo stesso numero. Che sfiga; (ci pensa) alcune le ho tenute e le ho piazzate in bagno, perché sembrano delle sculture.
Vestiti?
Certo, e li ho divisi con le mie figlie; (sorride) non indosso tutto, aveva un suo stile, ed evito gli abiti troppo eccentrici altrimenti mi sembra di essere lei, e mi fa impressione. Non sto a mio agio: più cresco e più le assomiglio.
Un classico.
Ho passato la vita a dire “mai come lei”, e ora…
Esempio?
In questo periodo vive da me un’amica, che è stata anche amica e vicina di mamma; in continuazione mi segnala: “Sospiri come lei”; oppure “Commentate allo stesso modo”.
Almeno ora ne parla.
Forse perché sto meglio, sono passati anni dalla sua morte e ho imparato che il tempo non leviga, non cancella, aiuta solo a capire come affrontare la quotidianità e a mettere ordine senza il clamore del “tutto e subito”. Poi sono tornata in teatro con un monologo nuovo. (È tra le protagoniste della rassegna Tutta scena in onda su Loft: un lavoro inedito tratto da L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello); un monologo nato e creato dentro questa casa.
“L’uomo dal fiore in bocca” è un uomo…
Il mio personaggio nasce da una didascalia di quel lavoro, è la moglie che sopravvive e deve affrontare il lutto del marito; un coniuge che per tutta l’esistenza ha pure ascoltato filosofeggiare; (cambia tono) la morte è un tema caro a me e Francesco (Zecca, autore e regista teatrale, ndr), anche perché intorno a me sono deceduti tutti, e a chi sopravvive restano dubbi e interrogativi. (Istintivamente riguarda l’urna).
A cosa pensa?
Mamma sosteneva: “Vivere è un atto creativo”; e me lo ha inculcato, in maniera brutale, da subito, sin da quando ero piccolissima, attraverso una metafora: “Inventati la vita, piazzati anche un carciofo in testa, ma fai qualcosa”.
La sua reazione?
Di spavento; comunque alla fine quel concetto l’ho sviluppato attraverso il teatro; se vuole per pranzo ho cucinato proprio i carciofi.
La sua prima volta sul palco.
Alla Ville Vesuviane dopo aver girato Speriamo che sia femmina: entravo in scena e la mia parte si concentrava in una sola frase: “Il pranzo è servito”.
Come ci è arrivata?
Dopo il film di Monicelli girava l’idea che fosse nata un’attrice; in realtà era nata solo un’occasione per me ventenne e siccome mi ritengo una persona seria, ho deciso di imparare, di costruirmi le basi e soprattutto ho iniziato a frequentare il mondo dello spettacolo.
Non lo conosceva già?
No, prima ero una modella, ed ero reduce da qualche dissidio con mia madre.
Cioè?
A 18 anni mi beccò a letto con il mio fidanzato di allora nella casa di campagna dove mi aveva spedito; la sua reazione fu clamorosa, della serie: “Queste sconcezze in casa mia!”. (Sorride) Per fortuna già da tre anni lavoravo come modella, così mi affrancai economicamente.
Sta scherzando?
No, è successo.
Insomma, il mondo dello spettacolo.
Dopo l’esordio sono andata in scena con Pino Quartullo, ma il mio maestro è stato Luca (Barbareschi, ndr): i suoi spettacoli mi hanno formata, anche perché eravamo solo noi due e in tournée molto lunghe. Lui mi ha forgiata. Mi ha rotto le scatole. Obbligata a studiare. L’amore tra di noi è venuto dopo.
Non l’aveva messo in conto?
No, lo giudicavo un uomo pericoloso, poi aveva figli e io mi ero appena separata e con le gemelle.
Perché l’ha scelta?
Sosteneva che avessi un talento naturale, un’emotività lontana dalla preparazione accademica; ricordo le giornate passate con la matita in bocca per ottenere una giusta dizione, gli esercizi per la voce, per la memoria. Io terrorizzata.
Quanto terrorizzata?
Il giorno della prima speravo in un incidente in motorino, o che il mio cane si sentisse poco bene e fossi costretta a portarlo dal veterinario; cercavo una giustificazione inattaccabile per evitare il palco.
E Barbareschi?
Da lui arrivava uno “zitta e cammina”; ma Luca è stato il mio maestro di tutto (ci pensa, sorride e con il sorriso chiede clemenza)… sì, di tutto, in tutto, ma non mi chieda altro. E guai a chi me lo tocca.
La qualità artistica di Barbareschi è stata un po’ sminuita dal personaggio?
Ogni tanto è autolesionista.
Preferisce il palco o la vita?
Il palco; questo lavoro ti insegna a indossare i panni del prossimo, ad avere sguardi diversi, e per questo sarebbe utile insegnarlo nelle scuole.
E il cinema?
Non mi chiamano.
Come mai?
Non lo so, forse non sono facile fisicamente, poi sono sofisticata, impegnativa; (chiude le braccia, posizione a “riccio”) sono tanta; (cambia tono) non me lo sono chiesto più di tanto, poi per anni c’è stato lo snobismo rispetto a chi fa televisione: mi giudicavano impura; infine il cinema è di sei o sette persone, sembra di vedere sempre lo stesso film.
Se ripensa a lei ventenne?
(Apre il cellulare: ha un video di pochi secondi con una sua intervista dell’epoca) Ho mostrato questo filmato alle mie figlie: “Mamma, parlavi pure diversamente”.
Come si giudica?
A me una così starebbe sulle palle, penserei “chi è ’sta stronzetta con la faccia da schiaffi, con il viso un po’ perbenino e l’atteggiamento di chi giudica?”. Ero timida.
È senza pietà.
Un po’ è vero, lo so; ma queste cose le pensavo di me già al tempo. Non mi sono mai detta “poverina”.
Mai?
Sono severa, sono una stronza; (cambia voce e si alza) rivedersi fa impressione, è traumatico.
Se passano un film con lei, cambia canale?
No, ma devo stare da sola (qui si gratta la spalla). Oggi Francesco va a vedere la registrazione dello spettacolo: per me sarà un altro trauma, e di sicuro mi accuserò di aver recitato uno schifo.
Un’occasione in cui si è detta “brava”?
(Scoppia a ridere) Quasi mai.
Su Internet c’è scritto che ha due papi nel suo albero genealogico.
È vero (resta zitta).
Non le interessa.
(Ripete due volte la domanda) Eh, che devo fare, sono morti pure loro.
Se non si chiamano Ratzinger e Bergoglio, non ci sono dubbi.
Sono cresciuta con un padre che ha rifiutato le sue origini aristocratiche e di conseguenza anche io, mentre di solito le famiglie nobili vivono con un forte senso di appartenenza; invece papà, all’anagrafe, si è tolto i suoi cognomi (e inizia a enunciarli, sono veramente tanti). Lui detestava quel mondo, anzi detestava il mondo.
E quindi?
Era mia madre quella affascinata da quel tipo di storia; i miei sostenevano ed esprimevano l’opposto.
Difficile mettere ordine.
Beh, sì; quella si faceva chiamare la duchessa, quell’altro tirava schiaffoni a chiunque provasse ad appellarlo con un titolo.
Dei papi, cosa le è rimasto?
Una sveglia ora piazzata sul camino di campagna; poi un piccolo scrittoio dell’800, ma è stato pignorato per colpa di mamma. Mio padre era squattrinato.
Quanto detesta parlare della sua vita?
È una fatica improba (sorseggia in continuazione acqua, direttamente dalla bottiglia). Vuole mangiare?
Una fatica.
È la mia vita, e per fortuna il lavoro mi consente di mettere tutto dentro.
È ordinata?
No, un grande caos, ma a me serve, amo immaginare.
A 15 anni come “immaginava” il futuro?
L’adolescenza è un periodo pesantissimo.
Si sente una sopravvissuta?
Forse lo siamo tutti, certo sono partita abbastanza incasinata; forse sono sopravvissuta alla mia famiglia, ai miei errori…
Tipo?
Premesso: sono felice così, ma concepire due gemelle a ventun anni, separarmi quasi subito e iniziare la carriera da attrice, non è il massimo; quindi sono sopravvissuta pure alle mie cazzate.
A scuola studiava?
No, avevo la testa in tilt.
È più bella adesso o allora?
Ora mi rode invecchiare; (adesso ripensa a prima) nella mia vita credo di aver mascherato l’ansia con un atteggiamento di strana supponenza, ho lasciato che gli altri derubricassero certe mie manifestazioni dentro a un semplice “a lei non gliene frega niente”.
Distaccata.
Me l’hanno detto tante volte, ed era, ed è, il contrario.
Si vende male.
Per questo soffro nelle interviste.
Perché molti suoi colleghi parlano sempre di depressione?
(Ride) Perché so’ scemi.
Però è così.
La sofferenza fa parte di ognuno, ma la si può vivere anche ridendo, senza salire sul piedistallo.
Curriculum: ha recitato in uno 007.
(Sospira e resta zitta).
Non era un porno.
Ero una comparsa.
Ha ragione, lei si vende male.
Forse avrei dovuto rispondere: è stata un’esperienza pazzesca?
Almeno una parola l’ha pronunciata?
Due, con Giancarlo Giannini che mi massaggiava e Daniel Craig che mi guardava; io buttata lì come una donna oggetto.
Il gossip l’ha subito?
Mi dava fastidio quando ero molto bambina, perché mamma era perennemente fotografata e a lei piaceva. Io stavo a disagio, per questo ho protetto le mie figlie.
E da grande?
Fa parte del gioco.
Tenta la lotteria?
Mai.
Vizio.
Mangio tanta cioccolata.
Scaramanzia.
Appena mi viene la caccio, così chiedo di passarmi il sale, se vedo un gatto nero attraverso, e l’intero repertorio.
Religiosa?
Attraverso il teatro.
Chi è lei?
Un’albicocca; (pausa) sono cocciuta?
Secondo lei?
Un po’, è che temo le domande: me le pongo in continuazione e non ho mai una risposta.
(Canta Francesco Guccini nella “Canzone delle domande consuete”: “Non parlare non dire più niente se puoi, lascia farlo ai tuoi occhi alle mani”)
Da Il Fatto Quotidiano del 21 marzo 2021