Sono bastati 9 anni a Lex Greensill per costruire una società da 7 miliardi di dollari. Mettendo a garanzia la fattoria di famiglia, con l’esperienza maturata in JPMorgan Chase e Citigroup, ha fondato nel 2011 la Greensill Capital con base in Australia. Stando ai dati diffusi dalla società, nel 2019 il gruppo aveva offerto finanziamenti a più di 10 milioni di clienti in 175 Paesi per circa 143 miliardi di dollari.
L’attività è quella del cosiddetto supply chain finance, in pratica il factoring dei crediti commerciali delle aziende. Una volta acquisiti i crediti Greensill procede poi a ricollocarli presso fondi d’investimento esterni, oppure li trattiene creando prodotti finanziari propri da offrire alla clientela. Da una parte quindi le aziende che cedono i propri crediti a breve termine a fronte di liquidità, dall’altra fondi d’investimento e depositanti che cedono liquidità per avere forme di investimento relativamente sicure, a breve scadenza e buon rendimento. Greensill nel mezzo a gestire l’incontro tra le due parti, valutare e impacchettare i crediti secondo i profili di rischio, ottenere un minimo margine che nel 2019 le ha permesso di superare i 500 milioni di dollari di fatturato.
Tutto però precipita all’inizio di questo mese, quando la principale società che si occupava di garantire i crediti acquisiti da Greensill decide di porre fine alla propria collaborazione valutando eccessivi i rischi assunti. La copertura assicurativa era infatti essenziale per poter garantire la solidità dei prodotti finanziari offerti ai clienti. Da quel momento la valanga.
Credit Suisse, che gestiva un fondo da 10 miliardi di dollari investiti in prodotti di Greensill, ha deciso di bloccare gli investimenti del fondo e porlo in liquidazione. Greensill Capital ha fatto istanza al tribunale di Londra per esser messa in amministrazione straordinaria e sospendere il pagamento di un prestito da 140 milioni di dollari ricevuto pochi mesi prima da Credit Suisse. Il 3 marzo Bafin, l’ente regolatore e di supervisione del sistema finanziario tedesco, ha tolto la licenza bancaria alla tedesca Greensill Bank e la scorsa settimana ne ha chiesto la formale insolvenza. La banca ha depositi dei tedeschi per circa 3,5 miliardi di euro. Una parte di essi, circa 500 milioni di euro, sono depositi di alcune principali amministrazioni locali della Germania, che non essendo coperti dall’assicurazione sui depositi andranno completamente persi. L’altra parte invece, essendo coperta dal fondo di garanzia dei depositi, ha contribuito ad alimentare la polemica sul ruolo che le piattaforme fintech di comparazione dei depositi bancari stanno avendo nello sfruttare la garanzia dei depositi per porre a carico di tutto il sistema i rischi assunti dalle banche più aggressive.
Dopo lo scandalo Wirecard, con i circa 2 miliardi di depositi fantasma e le centinaia di migliaia di carte prepagate bloccate dai sistemi di vigilanza di mezza Europa, un nuovo pezzo del settore fintech si trova sotto l’occhio del ciclone. Polemiche e perdite finanziarie legate al fallimento di Greensill non riguardano però solo la Germania. Nel Regno Unito l’affare è ancora più grande perché si lega a doppio filo a quello della GFG Alliance, guidata dal magnate indiano Sanjeev Gupta, che possiede tra le altre cose 13 acciaierie nel Regno Unito che impiegano 5.000 persone. In una lettera riservata degli inizi di febbraio, GFG aveva annunciato a Greensill che se non fossero state rinnovate le linee di finanziamento in essere (per circa 5 miliardi di dollari) si sarebbe trovata in una situazione di insolvenza. Con l’arrivo della tempesta all’inizio di marzo GFG ha sospeso tutti i pagamenti e non è ancora chiaro come finirà: si stima che il costo per il Tesoro britannico possa raggiungere il miliardo di dollari, a causa dei prestiti garantiti dallo Stato che GFG Alliance ha potuto ricevere.
Anche per l’Italia ci potrebbe essere un costo, perché una controllata italiana di GFG, la Liberty Magona S.r.l. di Piombino, aveva ottenuto nell’agosto scorso un finanziamento da Greensill Bank di 86 milioni di euro, garantito da SACE, nell’ambito delle garanzie Covid.
Nel Regno Unito la vicenda sta avendo anche rilevanza politica, perché è arrivata a riguardare direttamente l’ex premier David Cameron, che dal 2018 è consigliere del gruppo Greensill, e l’attuale premier Boris Johnson. Stando alle ultime rivelazioni del Financial Times, Cameron si sarebbe direttamente interessato presso il Tesoro ed il capo di governo per fare in modo che Greensill Capital potesse ricevere un ampio finanziamento garantito dal governo nell’ambito dello schema per l’emergenza Covid. Un finanziamento che avrebbe salvato la società finanziaria dal collasso, ma che non era ancora stato autorizzato. Il finanziamento poi non è arrivato perché la società non rispettava i requisiti necessari.
Non è chiaro ancora quanto questo nuovo scandalo finanziario possa estendersi e se rimarrà confinato in Germania e Regno Unito, dove Greensill ha i principali interessi. Le società che facevano affidamento sulla compagnia australiana per finanziare il proprio capitale circolante dovranno trovare presto delle soluzioni alternative. Quelle che non ci riusciranno potranno presto far compagnia a GFG Alliance nell’annunciare l’impossibilità a ripagare i debiti e contagiare altre parti del sistema finanziario. Rimane da scoprire quanto è grande ancora il buco.
In tutto questo c’è una grande società finanziaria giapponese, la SoftBank Group, il cui nome negli ultimi anni è passato da un fallimento ad un altro. Prima la mancata Ipo di WeWork nel 2019 e il rischio di default che ancora incombe sulla società, poi lo scandalo Wirecard e adesso Greensill. Tutte società che fanno parte del colosso finanziario giapponese che, indenne, continua tramite i propri fondi Vision a raccogliere miliardi e fiducia sui mercati internazionali.