Nel piccolo villaggio di Taiji, in Giappone, ogni anno tra settembre e marzo si consuma una lunga caccia ai delfini, uccisi per la loro carne o catturati per essere venduti agli acquari e ai parchi marini. Delfini a strisce, balene dalla testa di melone, delfini di Risso, tursiopi e delfini maculati pantropicali vengono accerchiati e braccati per settimane finché, esausti e impauriti, vengono strappati dal loro habitat naturale.
L’Organizzazione Dolphin Project, che da anni porta avanti campagne di sensibilizzazione globali per la tutela dei delfini, ogni anno si reca nel villaggio giapponese per denunciare la caccia di Taiji e documentarne l’impatto sui pods. La stagione appena conclusa, denuncia l’Organizzazione, è costata la vita a 547 esemplari, e altri 150 sono stati catturati. Inoltre, pur essendo rivolta principalmente ai delfini, solo quest’anno i team di Dolphin Project hanno assistito ad almeno tre catture accidentali di balene, due delle quali sono morte in seguito all’episodio. Anche Marevivo, che dal 1985 si occupa di tutela dei delfini attraverso varie attività di sensibilizzazione, ha lanciato una petizione per tentare di fermare la strage di Taiji raccogliendo quasi 200.000 firme.
La macellazione dei delfini, che in passato era molto comune in Giappone (tanto che la loro carne veniva servita nelle mense scolastiche di tutto il Paese) ha fortunatamente subìto una battuta d’arresto grazie alla pressione da parte delle organizzazioni animaliste e alla scoperta che la carne di questi animali è fortemente inquinata dal mercurio presente nelle acque.
Se sembrano calare i numeri dei delfini uccisi, per quanto riguarda la cattura invece, è triste e avvilente constatare che questa è aumentata in maniera proporzionale: guardando ai primi anni 2000 infatti, erano poche decine gli esemplari che venivano catturati, mentre nel 2018, anno che detiene il triste primato, circa 240 esemplari sono stati presi per essere venduti a delfinari e parchi aquatici. Il team di Dolphin Project a questo proposito denuncia la stretta collaborazione fra i cacciatori e gli addestratori di delfini, i quali selezionerebbero gli esemplari più adatti per vivere in cattività da vendere ai delfinari nazionali e internazionali, ognuno per centinaia di migliaia di dollari.
I parchi marini e gli acquari sono strutture con finalità di lucro che nulla hanno di educativo e di tutela della conservazione, ma al contrario costringono gli animali ad un’esistenza degradante, che compromette fortemente la qualità della loro vita, costringendoli a modificare la loro indole, a vivere in spazi ristretti e in condizione di stress fisico e psichico: molti studi evidenziano come il comportamento e la salute dei delfini cambino completamente se costretti a vivere in cattività. In natura i delfini sono caratterizzati da una grande energia e curiosità, hanno un comportamento molto coeso con il resto del pod, si aiutano e condividono il cibo fra loro, e possono vivere fino a cinquant’anni. Nei delfinari e parchi acquatici, al contrario, sono sottoposti a stress, depressione e monotonia, hanno un atteggiamento aggressivo (tanto che a molti esemplari maschi vengono somministrati tranquillanti e ormoni per cercare di ridurre l’aggressività), si cibano esclusivamente di pesce morto, il che comporta una dieta povera di vitamine, possono subire danni all’udito a causa del “rimbalzo” delle onde sonore sulle pareti delle vasche e raramente vivono più di 20 anni. Non dimentichiamo che per lo più i delfinari sono inseriti all’interno di parchi divertimento, e quindi i delfini vivono costretti fra i suoni delle attrazioni, degli schiamazzi del pubblico e dagli eventi speciali, come concerti e feste notturne o serali.
Non esiste esibizione artificiale al mondo che possa essere paragonata all’emozione di vedere un delfino nuotare libero nel proprio habitat naturale; questi “spettacoli” altro non sono che finzione e costrizione, l’emblema della prevaricazione dell’essere umano sul mondo animale.