“Mi disgusti”. “È nauseabondo guardarti”. “Sei una balena morente”. “Siete dei piccoli maiali”. Sincronizzate, sempre sorridenti e altere, presto le vedremo danzare in acqua quando concorreranno per salire sul podio delle prossime Olimpiadi di Tokyo. Ma adesso conosciamo anche gli abusi psicologici che le campionesse del nuoto sincronizzato hanno subìto fuori dalle piscine in Canada, America, Ungheria, prima di arrivare sotto i riflettori. Abusi che non sono più sommersi. Da Londra a New York, il New York Times e il The Times hanno cominciato a raccogliere le loro testimonianze.
Le nuotatrici sono tra le donne coraggiose che hanno deciso di denunciare le molestie sessiste che avvelenano il mondo dello sport. Delle storie spesso di lunghi silenzi. Nel 2020 il libro della campionessa di pattinaggio francese, Sarah Abitbol, 45 anni, che denunciava gli abusi subiti da parte del suo allenatore, Gilles Beyer, quando era adolescente, aveva scoperchiato il vaso di Pandora: un’ampia inchiesta nel mondo del pattinaggio in Francia aveva permesso di incriminare ventuno allenatori, accusati di abusi fisici e verbali.
Al New York Times e al Times, le giovani vittime sacrificali del nuoto hanno raccontato anni di terrore. Ad alcune venivano tirati oggetti affilati in acqua se le loro gambe non erano abbastanza dritte. Quasi tutte erano ridotte in lacrime per le parole degli allenatori. Altre, come la cinese Olivia Zhang, porteranno per sempre le cicatrici delle punizioni corporali subite durante gli allenamenti.
La campionessa Alison Williams, 31 anni, diventata ricercatrice all’Università Ucla di Los Angeles, ha raccolto in una tesi le esperienze delle ragazze della squadra nazionale di cui ha fatto parte: “Tutte hanno sperimentato l’abuso emozionale”, e almeno due terzi delle virtuose del nuoto Usa, tra il 1990 e il 2019, hanno sofferto o è stata loro diagnosticata la depressione.
In questo sport vige “la cultura insana della magrezza estrema” e l’odio di sé. Lo ha confermato Myriam Glez, 40 anni, ex olimpionica, ora dirigente del nuoto artistico Usa: “Se non sei alta e super magra, non hai alcuna possibilità di arrivare ad alti livelli”.
Cinque ex nuotatrici canadesi, facendo da apripista, sono intervenute in tv prima di citare in tribunale per danni morali il loro allenatore Gabor Szauder, ancora in carica. “Andate a cucinare per i vostri uomini o non vi sposerete”: accusato di commenti sessisti, razzisti, omofobi, Szauder, anche coach della nazionale slovacca dal 2013 al 2018, ha lasciato Bratislava trascinandosi dietro le stesse accuse mosse dalle sue allieve slave.
Nel mondo dello sport, lo stesso genere di commenti sessisti non è rivolto solo alle atlete. Ne sono vittime anche le giornaliste sportive che lavorano in redazioni essenzialmente maschili e in un settore che per stereotipi duri a morire è visto come maschile. La francese Marie Portolano ha raccolto le testimonianze di una ventina di colleghe della tv e della radio nel documentario “Je ne suis pas une salope” (“Non sono una puttana”), trasmesso domenica su Canal+.
Sono i racconti di un sessismo ordinario, battute spinte, frasi fuori luogo, molestie psicologiche in redazione e a bordo campo. Alcune descrivono il senso di disagio che provano quando sentono gli occhi puntati sul loro seno. Altre la rabbia di non essere prese sul serio. Certe devono fare la “bella statuina” in studio, senza mai poter intervenire: “L’importante è che ti vedano”. Charlotte Namura, ex presentatrice di “Telefoot” su TF1, “trema” quando si connette a Facebook: una donna che parla di sport nei media scatena gli insulti della folla anonima su internet. Tutte devono dimostrare più dei colleghi uomini di essere competenti. Nathalie Iannetta, prima donna a entrare nella redazione sport di Canal+ nel 1997, parla di “sindrome dell’impostore”: in un uomo l’errore è un lapsus, in una donna è incompetenza.
Amaia Cazenave, di Radio France, racconta di un giorno in cui era sola in redazione con un collega, e lui si è messo a gridare: “Ho voglia di scopare”. “Non vedo perché sul lavoro mi devo sentir dire se sono ingrassata o se ho un bel décolleté”, dice Catherine Sarlat. Un anno fa la giornalista di France Télévision ha denunciato la “cultura maschilista” della redazione sport. Ne è seguita un’inchiesta e il licenziamento di tre colleghi.
Marie Portolano ha deciso di non fare i nomi dei molestatori. Denunciare può costare delle carriere. Lei stessa è stata vittima di molestie: “Sono stufa di sentirmi dire al lavoro: ‘Perché non metti un reggiseno imbottito? Sarebbe meglio vedere i tuoi seni’”. Sembra che, come sostiene il sito Les Jours, dal documentario siano stati censurati dei passaggi che potrebbero compromettere Pierre Ménès, noto volto di Canal+. Nel 2016, il giornalista le ha alzato la gonna e pizzicato il sedere davanti al pubblico in studio.
“Noi donne giornaliste di sport – scrivono – vogliano prendere la parola perché ci viene confiscata”. In Francia, stando al Consiglio superiore dell’audiovisivo, il tempo di parola delle donne nello sport rappresenta solo il 13%. ”Lo sport non appartiene agli uomini. Vogliamo che le donne – continuano – siano rappresentate meglio nei media sportivi, siano più protette e valorizzate. E anche che siano più numerose nelle redazioni perché ciò contribuirà a mettere fine al sessismo”.