Era successo solo cinque volte in oltre 150 anni che il Canale di Suez fosse chiuso alla navigazione. Nelle due occasioni più famose (fra 1956 e 1957 e fra 1967 e 1975) i motivi furono politici e militari. Questa volta la ragione è molto più banale. La nave Ever Given, battente bandiera panamense, si è arenata, impedendo alle altre imbarcazioni di passare: costruito nel 2018, il cargo veniva dalla Cina ed era diretto a Rotterdam. Nel 2004 l’incagliamento di una petroliera russa aveva provocato una chiusura di tre giorni. Oggi i 400 metri di lunghezza e le 220mila tonnellate della Ever Given creano qualche problema in più: per la società incaricata del recupero ci potrebbero volere settimane. Nel frattempo, si sta formando una coda impressionante ai due sbocchi del canale: sarebbero più di 200 le navi già in attesa.
In gergo tecnico i passaggi come Suez sono definiti “punti di strozzatura” (chokepoints). Suez è considerato, insieme al canale di Panama e agli stretti di Malacca e Hormuz, un chokepoint di rilevanza strategica. Ogni giorno, circa 50 navi lo attraversano. Il 10% del commercio globale passa da lì. Un report di Assoporti di tre anni fa stimava che nel 2015 circa un terzo del tonnellaggio delle merci in entrata e in uscita dall’Italia percorreva il canale.
Parlare di strozzatura è una metafora che evoca efficacemente anche la situazione delle catene di approvvigionamento, in particolare quelle fra Asia ed Europa. La situazione del trasporto marittimo non è di certo rosea. Già a novembre, nel suo rapporto annuale sullo shipping, l’Unctad stimava per il 2020 un calo in volume del 4,1%. Ma proprio allora le tariffe di nolo, che erano cresciute in estate a livello globale, hanno iniziato ad aumentare vertiginosamente sulla rotta Asia-Europa. Il costo per trasportare via mare un container da 12 metri è passato da 2mila dollari a novembre a 9mila a gennaio, come già raccontato dal Fatto: un picco a cui è poi seguita una stabilizzazione su livelli alti.
Qual è la ragione? Nella seconda metà del 2020 la domanda occidentale di beni asiatici era tornata a crescere, portando alle stelle le tariffe di nolo. Allo stesso tempo, però, il governo cinese aveva chiesto alle compagnie marittime di mettere dei tetti ai costi di trasporto, per evitare danni alle esportazioni: da una parte il commercio sulla rotta pacifica si è intensificato, dall’altra i container disponibili per portare merci in Europa sono diminuiti, spingendo ulteriormente al rialzo le tariffe fra la Cina e il Vecchio continente. Il risultato? Da novembre il costo della rotta sino-mediterranea è più che triplicato, mentre il costo di quella sino-americana è cresciuto molto meno (+11%, dati Freightos Baltic Index).
Ora il blocco di Suez aumenterà ulteriormente i costi, oltre a ritardare le consegne e a esacerbare la scarsità di container in Asia, alimentando un circolo vizioso. Si parla già di tentare la via alternativa (e molto più lunga) intorno al Capo di Buona Speranza. Ma ciò farebbe crescere ancora di più le spese di trasporto. Intanto i future sulle tariffe di nolo hanno fatto un balzo e gli effetti si sono fatti sentire anche su altri mercati. Il prezzo del greggio è salito di circa il 6% dopo l’incidente, per poi normalizzarsi.
Queste turbolenze si aggiungono alla crescita sostenuta negli ultimi tempi del costo delle materie prime. In questo scenario, le aziende potrebbero essere spinte ad accumulare più scorte per far fronte all’instabilità delle catene di approvvigionamento e ad aumentare i prezzi, scaricando così sui consumatori i maggiori costi. L’inflazione – tanto temuta a causa dei maggiori deficit dovuti alla crisi e, ancor prima, dell’espansione monetaria delle Banche centrali – potrebbe verificarsi per un fattore del tutto diverso: i colli di bottiglia di una globalizzazione fragile.