Il confine tra realtà, immaginazione, sogno, vero, verosimile e possibile è inutile, o sciocco marcarlo: “A volte non so più qual è la realtà oggettiva da quella frutto della mia testa: qualche tempo fa mi ferma un signore, si congratula e mi parla della famosa serata in cui al Derby arrivò la polizia per una retata. E io: ‘Allora è accaduto! La narro da talmente tanti anni che oramai credevo fosse la mia immaginazione’. ‘Due settimane fa ho visto il suo spettacolo. E mi sono ricordato di quella sera: ero presente’. Ho sorriso”.
Paolo Rossi è un uomo immerso nella sua arte, dedito a essa, maschera e persona non hanno confini, alcuna sfumatura: ogni angolo della vita diventa prospettiva, ogni attimo dell’esistenza una possibile miccia da condividere sul palco, e se vede per strada un gruppo di testimoni di Geova “vado da loro in cerca di storie da portare a casa”. Anche il suo ultimo libro, Meglio dal vivo che dal morto (edizioni Solferino), è così: onirico. Va letto cullandosi tra le suo onde mentali, l’unica àncora è il continuo dialogo con Shakespeare, per il resto passa da una digressione a un ricordo (strepitoso quello su Jannacci e Gaber e la tinta che cola, o l’amico artista che per evitare le domande scomode della moglie, alle cinque del mattino si lancia nei Navigli, e pieno di fango detta la linea: “Ora portami a casa”); oppure dallo stesso ricordo arriva al desiderio di non nascondere nulla, neanche “il periodo blu”, come lo definisce lui, dove droga e alcool imbrigliavano il resto. “Ora mi sveglio alle sei del mattino”.
Un tempo alle sei del mattino andava a letto…
Ho deciso di dormire quando mi pare, compresa la mezz’ora prima dello spettacolo.
Non sente l’adrenalina.
Quella viene dopo (squilla il telefono, è uno dei suoi figli).
Ha tre maschi.
Con loro ho un bel rapporto, ma li ho riempiti di scherzi, è il mio modo di comunicare; (ride) la mamma del terzo è eritrea, lui un giorno mi porta a vedere un film su delle donne di colore; all’uscita gli chiedo: “Perché?”. “Me l’avevano consigliato”. “Dobbiamo parlare”.
Quanti anni aveva?
Tredici, credo; insomma, ci sediamo al bar, io serissimo, con l’espressione da razzista: “Lo sai che non sei bianco, vero?”. “Non sono neanche nero, papà”. “I tuoi fratelli come sono?”. “Bianchi”. “Vi tratto diversamente?”. “No, abbastanza uguali; però io non sono nero, sono olivastro: in classe ci sono dei pugliesi uguali a me”. “Lascia stare i pugliesi”. A quel punto scoppio a ridere, lui capisce e mi manda a quel paese. Da lì siamo riusciti ad affrontare un discorso serio.
A modo suo.
Quello che nella vita mi ha salvato, è una certa coerenza, sia sul palco che fuori, non solo con i figli.
Li portava in camerino?
Ci hanno dormito, studiato, giocato; il teatro è un luogo semplice per impartire un’educazione severa: lì incidono regole rigide.
Disciplina.
Soprattutto auto-disciplina, come accadeva con il militare.
Sotto le armi ha subito il nonnismo?
(Ride) Mi inserirono in un battaglione operativo, tradotto in “punitivo”: nella mia camerata c’erano solo soggetti di Lotta continua, Autonomia operaia e similari; una sera i nonni provano a entrare, ma “casualmente” non ci sono riusciti e non li abbiamo più visti; stavo nelle retrovie, coperto da quelli del servizio d’ordine: ho dato una mano a smontare i letti di metallo, per creare spranghe.
Sembra M.A.S.H.
Fine Settanta, anni particolari, con situazioni tese.
Ha mai rischiato di finire con i “compagni che sbagliano”?
Probabilmente sì, ne ho conosciuti, ma non mi seducevano per intelligenza.
Era più affascinante il Derby di Milano…
Lì ho trovato “belle teste”, persone straordinarie, protagoniste di un fermento irripetibile; per me è stata una fortuna: sono arrivato all’ultimo tratto di una magia.
Silvia Annicchiarico sostiene che il Derby era pieno di criminali…
Verissimo, era un ambiente borderline, ma le battute migliori le offrivano loro; quando ci fu la retata uscì sul giornale “Derby drogato”, e a casa trovai mia madre in lacrime; e comunque Shakespeare lo sapeva benissimo.
Cosa?
Lui perse 608 repliche a causa della peste, e del contagio davano la colpa agli attori; fuori dal teatro c’era sempre un rappresentante del clero che invitava le persone a non entrare: “Lì ci sono gli untori”; oggi non abbiamo questa qualifica, però ci hanno reso invisibili e non so cos’è meglio; oggi siamo alla stregua di categorie cosiddette illegali: senzatetto, prostitute, carcerati.
Nel libro racconta di essere stato un magnaccia…
Ho un po’ esagerato, in realtà da militare frequentavo una casa chiusa, e siccome mi comportavo alla grande, quindi cucinavo e portavo in giro il cane, le signorine mi volevano bene; in più ci accompagnavo altri commilitoni con l’ormone alle stelle; (cambia tono) alla fine non mi sono comportato bene.
Che ha combinato?
Dieci anni dopo torno a Torino, avevo uno spettacolo e volevo invitarle: vado in quel quartiere, le intravedo, ma la vita le aveva massacrate. Non ho trovato il coraggio di avvicinarmi; (ora ride) sempre a Torino ho dato i biglietti a 20 rom conosciuti con Kusturica: in platea non so chi avesse più oro, se loro o le signore borghesi.
Nel libro parla spesso di donne…
Ne ho incontrate molte grazie alla mia professione, perché da attore mi era più facile togliermi di dosso la timidezza.
Quindi è timido.
Come molti del mestiere; da ragazzo mi chiamavano “Taciturno Joe”, poi sul palco mi trasformavo e tornare giù diventava più semplice.
Anche gli up e i down si imparano a gestire?
Con il tempo e se sopravvivi. Io sono un sopravvissuto. Per questo voglio restituire al pubblico e alla compagnia un conforto laico; la forma più alta di trasgressione è la lucidità.
Per quanto tempo non è stato lucido.
C’è stato un lungo periodo blu, ma l’alcool, con cui ho vissuto problemi, da un lato mi ha lasciato ammaccature, dall’altro mi ha salvato la vita.
Tradotto?
Molte delusioni che si accumulavano, soprattutto nel mio ambiente; i tradimenti peggiori arrivano sempre dalla tua parte politica. Oggi sono più lucido, anche politicamente.
Nel pratico?
Per lei è più politico portare in scena un bel monologo sulle periferie, il disagio, magari in un grande teatro, con un bel prezzo del biglietto, poi prendere l’incasso e andare alle Fiji, o girare con una compagnia di otto persone con le quali recito anche nei bar, nei cortili, nelle piazze, ovunque ci sia un pubblico che magari non può andare a teatro?
Niente palchi?
Uno non esclude l’altro.
Ieri hanno occupato il Piccolo…
(Sorride e sornione aggiunge solo…) Andrà tutto…
Si sente sottovalutato?
È un problema che non mi pongo, sono abituato alle montagne russe: in questo periodo sento di avere molte responsabilità, lo percepisco anche attraverso l’ascolto della strada.
Che dice, la strada?
Rispetto l’insegnamento di Gaber e Jannacci, quindi faccio la spesa: in fila sento le persone lamentarsi della mancanza dell’estetista, della palestra, dell’aperitivo. Mai una volta ho ascoltato una lagna sui teatri.
Quindi?
Non dobbiamo porci solo il problema della chiusura, ma anche del dopo, del dove e del come; (ci ripensa) sono stato sottovalutato e altre volte sopravvalutato, o mi sono preso sul serio, che è l’errore peggiore. E sono entrato in una profonda crisi.
A Gaber e Jannacci cosa ha rubato?
A Giorgio l’impegno rigoroso, ma non sono riuscito a imitarlo del tutto; mentre Enzo sosteneva che se non ti accade qualcosa nella vita, è difficile che ti venga in mente una commedia o una canzone; (abbassa la voce) secondo Gaber ero più attore che comico, e forse aveva ragione, e come Gaber lo credevano pure Enzo e Strehler; anzi per Strehler dovevo diventare Arlecchino, per fortuna mi sono rifiutato, altrimenti mi sarei sentito dentro una gabbia; (ci pensa) per l’Arlecchino non avrei neanche avuto bisogno di una maschera, il mio viso è già una maschera, e non è comica in assoluto: la comicità arriva dall’altezza, o dalla figura fisica. E poi non sono un attore tradizionale.
Chi è il tradizionale?
Quello che dopo le prove dell’Amleto torna a casa e rompe il cazzo alla moglie, ai figli, alla portinaia con i problemi del suo personaggio; con quelli della mia compagnia andiamo alle prove e rompiamo il cazzo al personaggio con i nostri problemi. Questo è il teatro popolare: Shakespeare sarebbe d’accordo con me.
Quando ha intuito che l’altezza e la struttura fisica erano congeniali?
Da ragazzo giocavo a calcio, sono arrivato fino alla Seconda categoria, ogni tanto mi uscivano gran numeri: l’altezza non era un problema, perché quando mi trovavo davanti un avversario enorme, mi fregavo le mani; poi c’è stato Dustin Hoffman con Il laureato: per due settimane sono andato al cinema tutti i giorni, ogni volta con una ragazza diversa, solo per dimostrare che esistevano protagonisti bassi. Comunque sul palco mi sento alto, così alto da essere pronto alla rissa.
Metafora?
Il successo di Nemico di classe, lo spettacolo che lanciò me, Claudio Bisio, Antonio Catania, Silvio Orlando, Gabriele Salvatores e i “Comedians” era apprezzato dai critici, amato dall’ambiente, ma con pochi spettatori; fu grazie a un quasi arresto per colpa di Bisio, a una successiva rissa con il pubblico, più un semi-incendio in un albergo a trasformare lo spettacolo in un avvenimento.
Cosa accadde?
Interpretavo un naziskin, ovviamente in chiave ridicola, e presentavo una lezione reazionaria contro i meridionali; quel giorno il pubblico era composto da un migliaio di ragazzi e venivo costantemente applaudito, ma non per la recitazione, proprio per quello che sostenevo; a un certo punto mi fermo, e guardo la sala: “Sapete dove sono le teste di cazzo più grosse mai incontrate?”. E ho nominato la città dove stavamo; poi: “Potete andare affanculo”, e sono uscito. Gli altri della compagnia mi hanno seguito.
E lì?
Silenzio, non capivano; allora esce Antonio: “Non so se avete capito, ma per mille che siete potete andare a fanculoooo”. È scoppiata la bagarre.
Tutti solidali.
L’unico errore fu di Bisio: scappiamo dal teatro con le divise di scena, ci fermano a un posto di blocco e segue il poliziotto sostenendo “che non si deve mai abbandonare il proprio documento”; a quel punto gli urlo: “Lo dice il Soccorso rosso, non la Costituzione”.
Girerebbe un altro cinepanettone?
Se ho bisogno di soldi, sì; (ci pensa) porca vacca, Montecarlo Gran Casinò è l’unico film dove i miei figli ridono.
È giocatore?
Mi piace il poker e sono fortunato, altro che Gianni Morandi; quando abbiamo girato a Montecarlo, ho guadagnato più al casinò che grazie al film.
E come?
Ero diventato amico dei croupier, quindi applicavo il gioco-operaio: mi sedevo alla roulette e aspettavo le mani vincenti. E poi devi avere la forza di accontentarti e andare via; di solito, quando se ne accorgono, i gestori di casinò ti cacciano. Poi ci sono i colpi di culo.
Tipo?
Vado a Mosca con l’Inter, ospite dei Moratti: in albergo mi offrono 200 dollari per il casinò; cambio le fiches, una da cento e dieci da dieci, poi raggiungo il tavolo, lancio la fiche, convinto fosse quella da dieci, mentre era da cento. Grido “no”, ma rien ne va plus. È uscito il numero. A quel punto mi prende una vertigine e inizio a giocare, fino a quando arrivano alcune signorine che mi offrono un whisky che secondo me non era whisky, e non capisco più nulla, non reagisco. Per fortuna mi ha portato via il fratello di Moratti.
Quale vizio le è rimasto?
Le meringhe e le sigarette.
Comunque per la sua vita ci vuole il fisico…
Bestiale, un po’ come la canzone di Carboni. Che mi piace.
Chi è lei?
Non so rispondere. Mi appello al quinto emendamento.
(Canta Luca Carboni: “Ci vuole un fisico bestiale per resistere agli urti della vita…”).