È vero che Draghi è entrato in scena con un battage mediatico da salvatore della Patria, ma il miracolo di farlo parlare nonostante lui stia zitto non s’era ancora visto: è successo a febbraio quando, secondo Agcom, parla, suo malgrado, nei telegiornali e nei programmi per oltre otto ore! Un prodigio di telepolitica che non basta a oscurare il soliloquio di Salvini che si riprende la scena: 11 ore di chiacchiera, protagonista su tutte le reti, primo nei ranking di tutti i tiggì e in buona parte dei programmi. Tempi che non avvicinava da due anni e di poco inferiori a quelli del tanto criticato Conte nei mesi cruciali di marzo-aprile 2020. E non si capisce perché debba essere lui, e non altri, non il premier, non il capo dello Stato, a tenere banco tutto l’anno; o quasi. Prima del Covid era sempre Salvini a primeggiare, poi con la pandemia Conte ha dovuto esporsi molto di più, ma già a maggio era di nuovo sovrastato dal leader della Lega. Ciò fino a ottobre, quando la ripresa dei contagi rispediva alla ribalta il premier, anche qui per poco, perché con l’anno nuovo lo oscuravano prima Renzi e poi ancora Salvini.
E ora che l’Autorità ha emesso una direttiva per ricordare che con la nuova larga compagine guidata da Draghi si fa più stringente l’obbligo di una rappresentazione equilibrata della dialettica tra governo, maggioranza e opposizione, ci sarà in Rai e Mediaset più agio per Meloni e Fratoianni e meno per Salvini? Quel che è certo è lo squilibrio realizzato da un modo di raccontare le forze politiche che fa parlare una di esse con la sola forte voce del leader e le altre con una polifonia, che magari realizza tempi uguali, ma nei fatti, al tempo della politica personalizzata, è un pluralismo farlocco. Ed è da aprile del 2019, da quando l’Agcom meritoriamente misura il parlato dei singoli su tg e talk, che l’ingordo ex ministro dell’Interno, grazie alla colposa/dolosa complicità dei media, si prende la fetta più grande della torta.
Il problema naturalmente è legato alla qualità di un telegiornalismo quanto mai subalterno. I tg sono diventati ormai una specie di ufficio postale, che smista la comunicazione-corrispondenza dei vari onorevoli e senatori, raccolta supinamente con un microfono o inviata con video via Fb; e i giornalisti la buca delle lettere di messaggi pieni di ovvietà stereotipate, scontati truismi, slogan senza fantasia. Non un’inchiesta, uno scoop, una notizia originale; rara un’intervista vera. I tempi di parola assegnati poi agli esponenti politico-istituzionali sono amplissimi: il Tg1 negli ultimi cinque mesi ha dato spazio ai politici per quasi 14 ore, il Tg2 lo ha fatto per 12, privilegiando molto di più i partiti (e Salvini) che le istituzioni, il Tg5 idem. Per giunta, la stragrande maggioranza di queste ore vengono occupate da un carosello così penoso per gli spettatori e così umiliante per gli addetti ai lavori, da rendere incomprensibile la scelta scellerata dei direttori di insistere con un formato che andrebbe spazzato via con lo stesso furore con cui fu abbattuto l’ultimo monumento a Stalin. L’unico a provarci seriamente è Mentana, che col suo tg ha concesso ai politici da ottobre a febbraio poco più di 3 ore di parlato: un taglio meritevole, peccato che la conduzione del vecchio ‘mitraglia’, zoppicante e verbosa, non sia più quella di una volta. Anche il Tg3 riduce a otto ore il tempo di parola ai politici, ma ha meno edizioni. Su questo aspetto il caso del Tg1, che è la fonte informativa che più alimenta la sfera pubblica democratica, è davvero preoccupante, vista l’immagine della classe politica che consegna ogni giorno al Paese. Una classe politica che bisognerebbe far parlare meno. Ma (possibilmente) meglio. Come succede, per fortuna, alla radio.