Domenico Iannacone, l’autore più verticale della nostra televisione, specialista in ritratti di uomini non illustri, ha scelto la linea multipla, corale per L’Odissea trasmessa da Rai3 la sera di venerdì santo (ora su RaiPlay), e non poteva essere diversamente. Madre di tutte le Via Crucis, questa Odissea muove di pari passo con la storia del Teatro Patologico di Roma; la vocazione di Dario D’Ambrosi dopo una degenza volontaria in un reparto psichiatrico, la partenza per New York, il passaggio al Cafè La MaMa di Ellen Stewart, il debutto glorioso nell’East Side, il ritorno a Roma e la fondazione di una compagnia, o meglio di un dream team composto da disabili mentali.
Il docufilm, prodotto da Hangar e diretto da Iannacone con Lorenzo Scurati, interroga questi extracomunitari della ragionevolezza provvisti di un’energia che solo la disabilità può dare; segue la loro trasformazione in Ulisse, Penelope, Telemaco, Calipso, Circe, Polifemo; mostra quanto mitologia e patologia siano gemelle diverse.
Ma siccome le odissee non finiscono mai, nel bel mezzo delle prove scoppia la pandemia e il primo, terribile lockdown della primavera 2020. Ma volete che il Teatro Patologico si spaventi per così poco? Basterà aspettare l’estate, e trasferire la prima sulla spiaggia di Ostia.
Un anno dopo, la pandemia non è sconfitta, le platee restano vuote, l’odissea del Teatro Patologico prosegue, la sua stessa sopravvivenza è in forse; ma questo rende ancora più prezioso l’omaggio di Domenico Iannacone.
Dario D’Ambrosi e i suoi ragazzi sono la prova di quanta libertà, quanta cura e quanta salvezza ci siano nel teatro, e che ci sono cose che non si possono insegnare a distanza.
Per esempio, la vita. In un tempo in cui tutto il cinema tende a farsi televisivo, questa Odissea è uno struggente esempio di cinema a misura di televisione; capace di ricordare al servizio pubblico che, come ha scritto Montaigne, i nostri sogni valgono più dei nostri discorsi.