Facile cavarsela dicendo che la legge è uguale per tutti e dunque niente privilegi, anche i giornalisti vanno intercettati come gli altri, se capitano nel mezzo di una brutta storia. Perché il punto è proprio questo: i giornalisti devono mettersi di mezzo alle brutte storie, se vogliono rendere un servizio di verità. Tanto più quando tocca loro raccontare una tragedia storica in cui non esiste una linea di demarcazione tra i buoni e i cattivi, e il rispetto delle regole è andato a farsi benedire da un pezzo.
Vacci tu in Libia senza scorta. Imbarcati tu con le Ong nel canale di Sicilia dove le navi militari hanno smesso da sette anni di prestare aiuto ai migranti in pericolo. Omesso soccorso: un crimine che si pretenderebbe di giustificare moralmente con l’argomento che non dovevano partire; e che si sono messi nelle mani di trafficanti criminali. Tu, al posto loro, cosa avresti fatto? Facile cavarsela applicando burocraticamente normative ordinarie a situazioni eccezionali. È il caso dell’inchiesta di Trapani che rinvia a giudizio per favoreggiamento i volontari di Save the Children e Medici senza Frontiere operanti in mare nell’estate 2017, quando dalla Libia partivano in migliaia e i morti si contavano a centinaia. Per tutelarsi nei contatti con gli scafisti, Save the Children commise l’ingenuità d’ingaggiare un’agenzia di security. Sinché, come rivelò Il Fatto, due contractor ebbero l’idea di offrirsi a Salvini per alimentare la sua campagna contro le Ong e il governo, chiedendo di venirne ricompensati.
Sempre in quella stessa estate 2017 veniva stipulato il Memorandum che prevedeva il finanziamento della Guardia costiera di Tripoli e l’esclusiva giurisdizione libica sui campi di detenzione per i migranti. Così il governo Gentiloni operò per bloccare il flusso migratorio, illudendosi che fosse l’antidoto al leghismo e al grillismo avanzanti. Stessa impostazione fu mantenuta da tutti i governi successivi, con maggiore o minore “cattiveria”, e l’ha riconfermata martedì scorso Draghi durante la sua visita in Libia. Ambedue gli scopi – mano libera ai libici e argine alla campagna xenofoba dell’opposizione – implicavano una limitazione all’opera di soccorso delle Ong. Accusate perfino di agire nell’interesse di potenze straniere per mettere in ginocchio l’economia italiana.
Ora che ci siamo rinfrescati la memoria, risulterà forse più chiaro il contesto in cui agivano Nancy Porsia, la giornalista intercettata per mesi, e gli altri suoi colleghi finiti sotto osservazione mentre svolgevano il loro lavoro. Avevano a che fare con trafficanti camuffati da capi della Guardia costiera; infiltrati più o meno leali ai servizi segreti; politici intenti al doppio gioco. Oltre che con i volontari e i migranti. Ma pure fra questi ultimi disperati mica è facile distinguere: spesso a pilotare i gommoni venivano designati dei pescatori ivoriani o senegalesi che così si pagavano il viaggio. Vogliamo considerare scafisti pure loro?
Ecco perché insisto nel richiamare la nozione di “zona grigia” su cui ci ha illuminato Primo Levi col suo I sommersi e i salvati. Tra vittime e carnefici, tra soccorritori e persecutori, s’instaurano relazioni ambigue e talora, a fin di bene, si scende a compromessi. Peraltro incomparabilmente meno gravi degli accordi fra Stati tuttora vigenti che calpestano i diritti umani e ignorano il dovere del soccorso in mare.
Ci sono finiti in mezzo anche dei giornalisti, di cui si volevano scoprire o “bruciare” le fonti. Mi sarei stupito del contrario. Anch’essi, come le Ong, vengono percepiti come un intralcio dai titolari della realpolitik. E ancora gli è andata bene: negli anni del terrorismo rosso alcuni colleghi finirono in carcere perché si muovevano nella terra di nessuno fra lo Stato e le Br. Qui c’è solo il baratro di un mare trasformato in cimitero.