“La situazione sta diventando insostenibile per il settore metalmeccanico. La carenza di acciaio è tale da aver prodotto un rincaro dei prezzi del 100% dalla scorsa estate. L’aspetto paradossale è che però più chiedi materiale e meno te ne arriva: la disponibilità è drasticamente bassa”. Luca è il direttore acquisti di una delle principali imprese manifatturiere italiane e, come la stragrande maggioranza dei colleghi, trascorre le giornate a litigare con acciaierie e centri servizio per ottenere qualche quota in più di materiale rispetto a quella stanziata a fine 2020. “Noi, come altri, viviamo una situazione paradossale: il portafoglio ordini registra un aumento del 30% sul 2020, ma non riusciamo a metterlo totalmente in produzione per la carenza di acciaio. Ho la sensazione che siamo finiti vittime di un processo speculativo”.
Quando si parla di speculazione il primo pensiero va generalmente alla finanza, ma nel caso della siderurgia il suo ruolo è pressoché inesistente: sono pochissimi (e quei pochi che ci sono poco liquidi) i contratti derivati legati agli acciai. A quale speculazione fa dunque riferimento il manager? Il pensiero va a monte, ossia ai produttori di acciaio, i cui margini industriali sui laminati piani in queste settimane veleggiano intorno agli 800 euro la tonnellata rispetto al minimo dei 200 della scorsa estate. È un’accusa, però, che lascia il tempo che trova, nel senso che è piuttosto fisiologico che, in fasi di mercato rialzista, chi si trova nella fascia alta della catena alimentare cerchi di ottimizzare quanto più possibile, soprattutto se si considera che il mercato viene da un decennio (2011-2020) di trend inverso. Il problema di fondo, che crea terreno facile alla speculazione “industriale” è un altro: quello che era una volta il principale fornitore del mercato nazionale, oggi è un nano industriale. Stiamo parlando dell’ex Ilva, lo stabilimento siderurgico di Taranto, la cui produzione è passata in pochi anni da 6 a 3,5 milioni di tonnellate annue. Un letto ma inesorabile processo di ridimensionamento, quello che ha colpito l’impianto, che ha cambiato radicalmente la struttura del mercato italiano dell’acciaio, facendolo finire in deficit strutturale, se si considera che la produzione italiana nel 2020 è ammontata a circa 21 milioni di tonnellate a fronte di consumi di oltre 27 milioni di tonnellate.
Enormi sono naturalmente le responsabilità politiche di un tale disastro e che vanno ricondotte alla gestione del dossier che dalla nazionalizzazione degli asset di proprietà della famiglia Riva ha portato alla sconsiderata vendita al colosso siderurgico ArcelorMittal (capacità stimata in 90 milioni di tonnellate) per poi concludersi alla fine dello scorso anno con il nuovo coinvolgimento dello Stato. Si penserà che l’accordo tra ArcelorMittal e governo italiano sia saltato a causa della pandemia: in realtà già nel 2019, dopo appena due anni dalla vittoria della gara, si era capito che qualcosa non andava per il verso giusto.
I sogni di rilancio vengono infranti esattamente nel maggio 2019 quando l’azienda comunica ai sindacati che la crisi del mercato impone un drastico calo della produzione rispetto ai 6 milioni di tonnellate previsti. Arriva poi la pandemia e dai 6 milioni si passa ai 3,5 milioni di tonnellate, costringendo così lo Stato a entrare nel capitale con l’accordo di dicembre 2020: sulla carta vi si prevede il ritorno alla capacità produttiva di 8 milioni di tonnellate e l’entrata nel capitale fino al 60% per un esborso pari complessivamente a 1,1 miliardi. Quattro anni, insomma, buttati al vento e che viene da pensare abbiano anche fatto il gioco di ArcelorMittal, che potrebbe non aver avuto tutto l’interesse ad aumentare la produzione siderurgica di Taranto al fine di acuire la tensione sul mercato siderurgico.
Va detto che il ridimensionamento produttivo dell’impianto è in linea con la riduzione della capacità produttiva che ArcelorMittal ha implementato nel 2020 su tutto il mercato europeo a causa della diffusione del virus. Tuttavia, già all’inizio del terzo trimestre, gli stabilimenti in Francia, Spagna e Belgio erano tornati a produrre vicini ai livelli standard. Il sospetto, insomma, è che l’ex Ilva sia stata sacrificata per contribuire a mantenere teso il mercato europeo. Bisogna ricordare infatti che l’impianto di Taranto, durante l’epoca dei Riva, era il player in grado di offrire i coils ai prezzi più bassi in Europa: vendere quello stabilimento ad Arcelor è stato come darle le chiavi del mercato italiano.
Ora, mentre il governo Draghi è alle prese con l’implementazione dell’accordo con la multinazionale, l’attenzione degli operatori è rivolta alla decisione che a maggio dovrà prendere la Commissione Ue sulle quote all’import di acciaio che hanno aggravato le già enormi tensioni sul mercato. La lobby dei produttori, molto potente a Bruxelles, farà di tutto per estendere le quote, ma i timori sulla carenza di acciaio oggi sono tali che anche l’industria che usa quei materiali probabilmente troverà il modo per far sentire la sua voce.