L’ultimo ciclo produttivo delle pellicce di visone, marzo-dicembre 2020, si è concluso con un bilancio devastante: oltre 400 focolai di coronavirus SARS-CoV-2 (quello che nell’uomo provoca il Covid-19) in altrettanti allevamenti intensivi di visoni tra Europa e nord America, milioni di visoni abbattuti, migliaia di persone infettate in un salto di specie di ritorno (uomo-visone-uomo) di un virus anche mutato.
Per la prima volta l’industria “della pelliccia” si è fermata, ma non per imposizione di misure di prevenzione sanitaria (almeno non subito e non in tutti i paesi) bensì a causa del proprio modello di gestione e “accasamento”, tanto rivendicato negli anni come “sostenibile e socialmente responsabile” consistente nello stabulare milioni di animali in sistemi intensivi: minuscole gabbie di rete metallica, anche nella pavimentazione, poste a diretto contatto in lunghi filari, da 2 a 4 animali per gabbia, decine di migliaia di animali per singola unità produttiva, metodologia di allevamento basata sulla esclusiva selezione “estetica” e che dunque implica la (ri)produzione di animali con identico patrimonio genetico.
L’industria “della pelliccia” ha creato le condizioni ideali per l’ulteriore proliferazione del virus pandemico, arrecando danno non solo agli animali (già privati della possibilità di soddisfare basilari esigenze etologiche, come nuotare, sono stati infettati da un virus introdotto dagli allevatori in queste prigioni), ma anche all’uomo (addetti ai lavori in primis, che poi a loro volta hanno diffuso il virus nella comunità).
Ma grave è stata anche la disattenzione del ministro della Salute che, accompagnato da un Comitato Tecnico Scientifico impegnato a chiudere piscine, palestre e ristoranti, non si è reso conto che gli allevamenti di visoni sono gli unici serbatoi del coronavirus rimasti “aperti”.
È quanto denuncia la LAV nel Rapporto “Fashion Spillover” con una prima parte dedicata all’ambito “Istituzionale” e una descrizione puntuale della cronologia della diffusione dell’epidemia di coronavirus tra i visoni, i provvedimenti dei vari governi, le valutazioni scientifiche di autorità sanitarie nazionali di diversi paesi e organismi internazionali, il contesto italiano (con il primo focolaio in un allevamento a Cremona, le indagini della LAV che hanno consentito di documentare violazioni alle norme di biosicurezza in questi allevamenti e di diffondere informazioni altrimenti non rese pubbliche dalle autorità sanitarie, come i costi che gravano sulla Sanità Pubblica per lo screening dei visoni). La seconda parte del Rapporto descrive il ruolo, colpevole, della “Industria della pelliccia” nell’avere progettato un sistema di sfruttamento degli animali “tutelato” da auto-certificazioni cosiddette “responsabili” ma che di responsabile non hanno proprio nulla.
Il Rapporto “Fashion Spillover” si conclude con un duplice appello, alle aziende della moda e alle istituzioni: stop all’uso e al commercio di pellicce, e definitiva chiusura degli allevamenti di visoni.
E proprio a seguito della inarrestabile epidemia che ha interessato praticamente tutti i paesi produttori di pellicce di visone (anche se, incredibilmente, non risultano esserci stati focolai negli allevamenti in Cina nonostante sia tra i principali produttori mondiali), alcuni governi hanno assunto la decisione responsabile di porre un freno a questa industria: l’Olanda ha vietato definitivamente e già da gennaio scorso l’allevamento dei visoni; la Danimarca (dopo avere abbattuto oltre 17 milioni di visoni, ossia l’intera popolazione nazionale) ha sospeso l’allevamento per tutto il 2021; stesso provvedimento adottato dalla Svezia e, finalmente, anche dall’Italia.
Il Governo italiano, anche grazie alle forti pressioni mosse dalla LAV sin da inizio pandemia, nei mesi scorsi ha finalmente disposto almeno un temporaneo stop all’allevamento per qualche mese per poi, in considerazione della continua emergenza sanitaria, prorogarlo a tutto il 2021. Alla sospensione ha fatto seguito anche uno screening diagnostico (come più volto richiesto dalla LAV da mesi) per indagare l’eventuale presenza del coronavirus negli allevamenti italiani di visoni e, infatti, a seguito dei primi test di gennaio, i visoni in un allevamento in provincia di Padova sono risultati quasi tutti positivi. Si tratta del secondo allevamento focolaio italiano.
Attualmente in Italia sono presenti 6 allevamenti (due in Lombardia, due in Emilia Romagna, uno in Abruzzo ed uno in Veneto – e che dovrebbe essere abbattuto essendo stata confermata la presenza del coronavirus); in queste strutture sono presenti oltre 7.000 visoni cosiddetti “riproduttori” ovvero quelli che nel mese di marzo avrebbero dovuto dare inizio al nuovo ciclo produttivo (fermato per tutto il 2021).
Seppure la densità di popolazione in queste strutture sia stata ridotta impedendo la nascita di decine di migliaia di visoni, comunque ognuno di questi allevamenti è un potenziale serbatoio del coronavirus (come già documentato e segnalato dai vari Risk Assessment pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità umana, OMS, e animale, OIE, così come dalle Agenzie europee per il Controllo e Prevenzione delle Malattie, ECDC, e per la Sicurezza Alimentare, EFSA, nonché dalla FAO).
La necessità di chiudere definitivamente questi allevamenti, nell’interesse degli animali e oggi anche nell’interesse per la tutela della salute pubblica, esattamente come sta chiedendo la LAV da tempo, è stata condivisa dalla Regione Emilia Romagna (che già lo scorso novembre aveva formalmente chiesto uno specifico intervento al ministro della Salute) e, recentemente, anche dalla Regione Lombardia che, per voce della vice presidente e assessora alla Sanità Letizia Moratti, si è rivolta al Governo per chiedere “di procedere alla dismissione definitiva degli allevamenti di visone e degli animali da pelliccia. C’è la necessità di prevenire future zoonosi, tutelando la salute delle persone”.
È finalmente stata intrapresa la giusta strada da parte delle istituzioni (almeno nazionali/regionali)? Meglio non fidarsi troppo, perché l’istanza della Lombardia è accompagnata da una richiesta di “immediati ristori” per un ammontare di 13 milioni di euro da spartire tra 7 strutture.
Il Governo, dunque, non deve cadere nel ‘tranello’ della Lombardia, che rispetto alla tutela della salute pubblica sembra più interessata alla tutela degli allevatori; infatti già nella prima ordinanza del ministro della Salute (quella dello scorso 21 novembre e con la quale è stata disposta una prima temporanea sospensione degli allevamenti di visoni), tra i vari “Considerando” si legge che la Regione Lombardia in riferimento al focolaio di coronavirus nell’allevamento di Cremona (dove sono stati poi abbattuti oltre 26.000 visoni) aveva formalmente chiesto di consentire all’allevatore di concludere il ciclo produttivo e ricavare le pellicce da animali positivi al coronavirus!
Ora invece, sapendo che questi allevamenti non hanno un futuro, con la scusa della “salute pubblica”, la Lombardia reclama indennizzi spropositati e addirittura per allevamenti che esistono solo sulla carta. In Lombardia, in base ai documenti acquisiti dalla LAV, solo 2 allevamenti hanno visoni, mentre 4 risultano con codice attività aperto ma le gabbie sono vuote da prima della pandemia o addirittura già smantellati, e 1 (quello di Capralba) è stato svuotato in seguito alla scoperta del focolaio di Sars-Cov2.
Senza regalare milioni agli allevatori ed ex-allevatori, il ministro Speranza deve urgentemente disporre la chiusura definitiva di questi allevamenti in uno dei prossimi Decreti-legge relativi all’emergenza sanitaria.