Si chiede Maurizio Paniz, l’abile avvocato di Roberto Formigoni e di molti altri ex senatori e onorevoli a caccia del perduto vitalizio: “A un ergastolano, se l’ha maturata, la pensione viene data: a un ex parlamentare non bisogna darla?”. La domanda, seppur retorica, merita risposta. La nostra è questa: “Sì, la pensione-vitalizio al parlamentare condannato per reati contro la Pubblica amministrazione non va data. Va concesso, se il parlamentare è indigente, solo un contributo minimo che gli consenta, come è giusto, il sostentamento”.
Il perché è semplice. E non nasce da sentimenti anti-casta. Ma al contrario scaturisce dal profondo rispetto che nutriamo per le istituzioni oltraggiate da chi, approfittando del suo ruolo, si è venduto in cambio di denaro o altre prebende. Chi viene eletto ha oneri e onori diversi da quelli dei semplici cittadini. Quando assume un incarico pubblico si impegna a svolgerlo con “disciplina e onore”. Se è parlamentare “rappresenta la nazione” e perché lo possa fare liberamente le leggi stabiliscono per lui l’assenza di vincoli di mandato, l’impossibilità di essere perquisiti, arrestati o intercettati senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Ma non basta. Proprio perché la funzione del parlamentare è importante, il legislatore ha anche previsto un’aggravante di pena in caso di diffamazione. Se un giornalista scrive cose false su un semplice cittadino, subirà una condanna più lieve rispetto a quella che gli verrà comminata se attribuisce gli stessi fatti a chi fa parte di un “corpo politico dello Stato”.
Da questo punto di vista, insomma, l’eletto è molto diverso dall’elettore. Ed è diverso ovviamente anche dall’ergastolano citato da Paniz. Il quale con i suoi comportamenti negativi ha infangato solo se stesso, non la sua nazione, il Parlamento e chi lo ha votato pensando che fosse una brava persona.
Questa diversità è spesso rivendicata con orgoglio dai nostri rappresentanti. Anche per questo sia alla Camera sia al Senato vige ancora l’autodichia: una prerogativa che permette al Parlamento di risolvere controversie attinenti ai propri dipendenti attraverso propri organi giurisdizionali, senza ricorrere ai tribunali esterni che di regola giudicano su queste vicende. In caso di licenziamento, per esempio, i commessi della Camera non possono ricorrere al Tribunale del lavoro. E sempre in base all’autodichia è stato deciso che nel Palazzo non vale la legge sui whistleblower (che protegge chi svela episodi corruzione) e nemmeno quella che abolisce i co.co.co e i contratti a termine oltre il terzo anno (col risultato di garantire meno diritti ai cosiddetti portaborse rispetto agli altri lavoratori).
Anche la Commissione Contenziosi (composta da un esponente di Forza Italia, da due della Lega e da due tecnici) che ha restituito i vitalizi ai tangentisti si è espressa in base all’autodichia. Per questo rivendicare come una vittoria del diritto le pasticciate motivazioni della Commissione è sbagliato. Si è trattato semplicemente di una scelta politica dettata dal vecchio principio secondo cui cane non mangia cane. Perché in base all’autodichia la Commissione Contenziosi avrebbe potuto benissimo citare la legge sul reddito di cittadinanza (che esclude dal sussidio solo chi ha commesso reati di mafia o si è sottratto alla pena) non per restituire ai ladri di Stato il lauto vitalizio, come ha fatto, ma semplicemente per assegnare loro 780 euro al mese. Il minimo per la sussistenza. E nessuno avrebbe potuto dir nulla. Intanto, il Palazzo decide da solo.