Tra tutte le critiche al suo video, la più grottesca è che Grillo abbia politicizzato il processo per stupro a suo figlio. Infatti dai 5Stelle non s’è levata una sola voce in sua difesa: due o tre hanno solidarizzato sul piano umano, qualcuno ha taciuto, tutti gli altri (Conte in primis) l’hanno criticato. Come dovrebbe accadere in tutti i partiti se fossero comunità di uomini liberi e non cosche mafiose in cui, appena viene toccato il boss, tutti fanno fronte comune a prescindere. Quando qualcuno in FI, nella Lega e in Iv oserà contraddire anche timidamente il suo capo, potrà parlare di Grillo e dei 5Stelle. Nell’attesa, tacete e vergognatevi. Qui, se qualcuno sta politicizzando quel processo, è la legale della presunta vittima Giulia Bongiorno, ultima bandiera del partito trasversale degli “onorevoli avvocati” che si dividono fra le aule di giustizia e quelle parlamentari se non addirittura governative (lei, nel Conte-1, era financo ministra). Se Grillo, per i motivi appena illustrati, non è in grado di intimidire i giudici di suo figlio, non si può dire altrettanto della sen. avv. Bongiorno, responsabile Giustizia della Lega e legale di Salvini. Il quale ha subito chiesto “le dimissioni di Grillo dalle sue cariche” (quali?) e detto la sua sul processo di Tempio Pausania. Il sospetto lanciato dal M5S che sappia qualcosa di troppo è del tutto infondato: il Cazzaro Verde esterna solo quando non sa di cosa parla, altrimenti tace.
Il vero scandalo è il conflitto d’interessi dei parlamentari eletti per “rappresentare la Nazione” e poi ridotti a rappresentare tizio o caio. Lo facevano Previti, Pecorella, Ghedini, Taormina nel centrodestra, Pisapia e Calvi nel centrosinistra, spesso sedendo nelle commissioni Giustizia che riformavano o depenalizzavano i reati dei loro clienti (chissà le parcelle, dopo). I primi invocavano ispezioni ministeriali contro i magistrati dei loro processi, trasformavano in interrogazioni le istanze respinte dai giudici, usavano i loro impedimenti parlamentari per far slittare le udienze dei clienti (soprattutto uno). Taormina, sottosegretario agli Interni, andava in aula con la scorta del ministero a difendere un imputato di mafia contro cui il ministero era parte civile, ma lui almeno ebbe il buon gusto di dimettersi. Bei tempi quando i principi del foro De Nicola e Vassalli chiudevano lo studio appena assumevano pubbliche funzioni. Un giorno di fine anni 70 Scalfaro, vicepresidente della Camera, dovette sorbirsi l’interminabile catilinaria di un avvocato-deputato che spiegava come e qualmente si dovesse riformare un articolo del Codice. Alla fine, esausto, lo interruppe: “Avvocato, s’è fatto tardi: ci dica quale processo vuole sistemare, così la facciamo finita”. Altri tempi, altri stili.