Velleitari, irresponsabili, inutili, controproducenti, esaltati dall’ideologia, quattro gatti, rubagalline, comunisti, terroristi: questa è la sfilza di aggettivi scaraventata sui partigiani in un processo alla Resistenza che, nel tempo, ha assunto un ritmo incalzante, fino a ridurre la lotta armata contro i tedeschi e i fascisti a un film dell’orrore, a un’esperienza semplicemente criminale.
Molti di questi termini derivano da una pubblicistica di destra che non fa mistero delle sue radici ideologiche; altri nascono in un filone storiografico che progressivamente ha svolto un ruolo sempre più revisionista, attaccando alla radice le fondamenta antifasciste della nostra Repubblica. Entrambi hanno contribuito ad affollare la grande arena dell’uso pubblico della storia di luoghi comuni e di stereotipi, proposti con pezze di appoggio discutibili e con un uso delle fonti e delle testimonianze fin troppo disinvolto. A svelare la sciatteria filologica di queste posizioni è il recente libro di Chiara Colombini, (Anche i partigiani però…, Laterza, 2021), che ne smonta l’impianto interpretativo nel modo più efficace, ripristinando cioè le ragioni della ricerca, documentando l’abisso che separa gli studi sulla Resistenza dalla vulgata antiantifascista costruita prima nell’universo mediatico e ora, soprattutto, nel web.
Attenzione ai contesti, ai fatti, alle fonti, ai documenti: no, non è difficile smontare l’odiosità di alcune ricostruzioni che impazzano in rete dopo aver saturato per decenni il mercato editoriale. Un esempio.
I partigiani furono pochi. In realtà furono molti di più di quanto si creda e soprattutto diffusi in una geografia italiana molto più estesa di quanto l’immagine del “vento del Nord” abbia lasciato intendere. Le ricerche degli ultimi anni (di cui Colombini offre una rassegna puntuale) mostrano che i mesi tra il settembre 1943 e il giugno 1944, nel Sud occupato dai tedeschi e teatro di feroci combattimenti intorno alla “linea Gustav”, sono pieni di episodi di Resistenza, a lungo taciuti da un’opinione pubblica troppo presto smemorata e ora portati alla luce da una storiografia attenta alla documentazione emersa negli archivi tedeschi e angloamericani. Senza contare le ricerche che hanno approfondito la presenza degli stranieri nelle bande partigiane, insieme allo straordinario contributo dato dagli italiani alle altre Resistenze europee (furono 30 mila i nostri caduti all’estero).
Certo, se paragonati alle folle oceaniche che affollavano le piazze dei discorsi del Duce, ai milioni di italiani iscritti al PNF, i partigiani furono pochi. Le cifre che si possono leggere nel libro di Colombini sono eloquenti: 9-10.000 nei mesi immediatamente successivi all’8 settembre 1943; fino a 80 mila nell’estate del 1944, quella delle “zone libere” e delle repubbliche partigiane; 30-40 mila nell’inverno 1944-1945, quando la Resistenza fu obbligata a sostenere con le sue sole forze l’urto della potenza nazifascista; 250 mila nelle giornate dell’aprile 1945, quelle della Liberazione e della fine della guerra. Si, i numeri sono questi e le loro fluttuazioni ci dicono molto sulle caratteristiche di una guerriglia che proprio nella fluidità e nel dinamismo trovava le risorse a cui attingere per imprimere efficacia alle sue azioni militari. Quello partigiano non era un esercito regolare; quando un comandante delle formazioni di Giustizia e Libertà, il cuneese Dante Livio Bianco, proponeva di sostituire le divise con le tute da operaio, aveva certamente in mente l’esempio delle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola, ma soprattutto vedeva in quella scelta una rottura drastica con la tradizione sabauda di un esercito su cui gravava l’esperienza drammatica e ingloriosa dello scioglimento dell’8 settembre 1943. Nelle bande si entrava e si usciva, si respirava un’aria di libertà che ne faceva, come scrisse Guido Quazza, un “microcosmo di democrazia diretta”. Era una realtà che aveva alle spalle il carattere “volontario” della scelta partigiana. È vero: quelle stesse cifre che circoscrivono a una minoranza di italiani e italiane la militanza nella Resistenza ci dicono anche che mai, mai, nella storia italiana, nel Risorgimento e tantomeno nella Prima guerra mondiale, così tanti uomini e donne avevano scelto volontariamente di impugnare le armi, scrollandosi di dosso venti anni di conformismo, di disciplina, di gerarchia, di obbedienza; mai un gesto di disobbedienza era stato così “di massa”, affollando quella minoranza di gesti e di azioni che già solo per questo possono definirsi “eroiche”.
Un altro esempio. I partigiani commisero molti errori, pagando un prezzo altissimo alla loro ingenuità così da soccombere spesso nei confronti di una Wermacht che, ricordiamolo, era la più poderosa macchina da guerra schierata in battaglia da uno Stato europeo. Ma proprio per questo l’efficacia militare delle loro azioni fu una sorta di miracolo organizzativo. I partigiani impararono a combattere combattendo. A ogni rastrellamento superato imparavano qualcosa in più, a sbandarsi e a ricomporsi, ma anche che il mito dell’invincibilità dei tedeschi si poteva sfatare e che li si poteva sconfiggere anche in campo aperto, come avvenne sul colle della Maddalena nell’estate del 1944, impedendo ai nazisti di sentirsi padroni del territorio.
Ancora un esempio. I partigiani furono “violenti”. Colombini ci propone le cifre della violenza nazifascista, contando 5.862 eccidi, con 24.384 vittime, delle quali il 53% civili, il 30% partigiani. Era una violenza brutale esercitata “non solo perché esistevano i partigiani, ma perché l’unica legge da applicare era quella della sopraffazione”. Era una violenza di proporzioni agghiaccianti, anche questa senza paragoni con il passato, visto che mai sul nostro territorio nazionale un così grande numero di civili inermi aveva trovato la morte in azioni belliche sul terreno. Ma non era solo questione di cifre; la differenza era qualitativa e non solo quantitativa. La violenza partigiana fu soprattutto una scelta individuale; dopo l’8 settembre 1943 impugnare le armi voleva dire entrare in una terra di nessuno dove si andava solo per uccidere o farsi uccidere. Un territorio estremo, per un gesto estremo: quelle armi certificavano la riconquista della propria autonomia, della propria sovranità, un appuntamento con la storia che segnò per sempre le biografie di quegli uomini e quelle donne. A tutti e a tutte l’Italia deve il proprio riscatto, una ricostruzione “miracolosa”, una Costituzione che con i suoi valori impronta ancora oggi il nostro patto di cittadinanza.