Io vorrei, anche dopo 40 anni, anche dopo 50 o 60 anni, l’arresto di chi ha messo le bombe in piazza Fontana o alla stazione di Bologna, di chi ha ucciso Pinelli, di chi ha ucciso Calabresi. Non per vendetta, ma per giustizia. E la giustizia, come la verità, è una. Invece c’è chi, tra i miei amici, s’indigna per l’arresto in Francia di sette persone ricercate in Italia per episodi di lotta armata e, nel caso di Giorgio Pietrostefani, per la partecipazione all’omicidio del commissario Luigi Calabresi.
Come possiamo pretendere verità e giustizia per le stragi italiane, per l’eversione nera e le complicità di Stato, e non chiederle invece per l’eversione rossa? Vogliamo sapere chi ha provocato la morte di Giuseppe Pinelli nella questura di Milano, e non vogliamo che chi ha ucciso Calabresi sconti la sua pena? Non per gusto di vendetta o passione per le manette, bensì per poter affermare con orgoglio, come stabilito dalla nostra Costituzione, che la legge è uguale per tutti. E poter dunque pretendere che nessuno si fabbrichi corsie privilegiate o leggi ad personam. Nessuna vendetta: un giudice stabilirà se un condannato vada tenuto in carcere, oppure se non debba essere chiuso in una cella perché vecchio e malato: si chiami Giorgio Pietrostefani o Carlo Maria Maggi (il fascista indagato per piazza Fontana e condannato per la strage di Brescia, poi morto nel 2018).
Lo so, la storia italiana, soprattutto quella tra gli anni Sessanta e gli Ottanta del Novecento, è attraversata da un fiume nero d’ingiustizia in cui le stragi, le pianificazioni eversive, gli omicidi politici, le compromissioni degli apparati dello Stato, il loro spregiudicato utilizzo del terrorismo e delle organizzazioni mafiose hanno trovato raramente una sanzione giudiziaria. Fa rabbia, lo so, vedere che la giustizia è stata efficace per alcuni e invece impotente per uomini politici e funzionari dello Stato che sono stati salvati dai depistaggi, dalle esfiltrazioni, dalle avocazioni, dai porti delle nebbie, dai silenzi, dalle doppie verità, dalle menzogne.
È vero che – come scrive Hannah Arendt – “la giustizia vuole più dolore che collera”. Ma pretende lo stesso rigore per tutti. Se lo si abbassa per alcuni, lo si perde per tutti: la giustizia non sopporta i doppi pesi, non può togliersi la benda e guardare negli occhi chi sta per valutare.
Per un caso del destino, proprio ieri, nello stesso giorno in cui i sette ricercati italiani finivano la loro latitanza francese, si teneva a Bologna la prima udienza operativa dell’ultimo processo sulla strage del 2 agosto 1980, alla ricerca dei finanziatori e dei mandanti di Stato (in cui ho avuto la ventura di essere chiamato come testimone a proposito di una vecchia intervista al giudice Giancarlo Stiz). Un processo fortemente voluto dalla Procura generale di Bologna che ha indagato con meticolosa passione e solido coraggio per vedere se è possibile, per una volta, salire dai “portatori di valigia” (come Vincenzo Vinciguerra chiama i manovali del terrore nero) alle ombre che li hanno finanziati, allevati, protetti, mentre stavano al sicuro nelle loro ville aretine, nelle logge segrete, nei silenziosi uffici del Viminale, dove il prefetto-gourmet Federico Umberto D’Amato, gran burattinaio degli Affari Riservati, incontrava amabilmente neonazisti pronti a tutto, dichiarando poi a un giudice istruttore troppo curioso che con uno di questi “la conversazione fu di carattere culturale”.
Come le conversazioni notturne che lo stesso D’Amato sosteneva di aver avuto con Adriano Sofri, e che Sofri non ci ha ancora spiegato? Sono molti i buchi neri nella storia della guerra segreta combattuta in Italia senza esclusione di colpi, il cui disegno è però ormai chiaro. Per recuperare quante più tessere possibile di quel mosaico nerissimo, è necessaria non giustizia selettiva, ma coraggio spietato e rigore per tutti.