“Se nella mia condanna c’è l’interdizione? Sinceramente? Non lo ricordo”. La risposta che non ti aspetti arriva dal nuovo capo della segreteria tecnica del ministero degli Affari regionali, dicastero senza portafoglio ma centrale nei lunghi mesi della pandemia e per le scazzottate governo-regioni sulle restrizioni. Per l’incarico, Mariastella Gelmini ha scelto un nome alquanto ingombrante: si tratta di Massimo Parisi, ex parlamentare di FI, poi Ala e storico braccio destro di Denis Verdini in Toscana. Insieme calcano da anni aule di giustizia tra condanne e udienze ancora da celebrare.
Parisi era persona di fiducia nonché amministratore nelle società editoriali fondate da Verdini dalla fine degli anni 90, falcidiate poi da fallimenti e inchieste per sovrafatturazioni e indebiti contributi all’Editoria ricevuti dalla Presidenza del Consiglio. Il 10 giugno li attende il processo d’appello per la bancarotta della Società toscana edizioni (Ste) e relative provvidenze per la stampa che nel 2018 costò loro una condanna a cinque anni. Il 7 luglio compariranno poi davanti alla Corte dei Conti di Firenze per i danni patiti dallo Stato in sede civile, tali – stando all’accusa – da giustificare il sequestro di beni per svariati milioni.
La nominadi natura politica e fiduciaria innesca cortocircuiti a catena tra istituzioni: la Presidenza del Consiglio, salvo passi indietro, si troverà presto a stipendiare con 10mila euro al mese un condannato contro il quale si era costituita nel processo, ottenendo il riconoscimento di risarcimenti e il pagamento delle spese legali. Il secondo è che la Corte dei Conti dovrà bollinare la regolarità di un incarico a un imputato davanti a una sua procura contabile. Parisi, raggiunto dal Fatto, non si scompone, risponde malcelando fastidio dal suo ufficio in via della Stamperia a Roma, sede del Dipartimento per gli Affari regionali. “Sono vicende stranote alle cronache giudiziarie. Sono un cittadino innocente e non pregiudicato”, taglia corto perché “io parlo nei processi e non dei processi”. Forse non a torto, visto che quando lo fa ammette candidamente di non ricordare se è stato interdetto dai pubblici uffici come Verdini.
L’amico Denis invece è a casa sua, a Firenze. Causa Covid sta scontando ai domiciliari i sei anni e mezzo inflitti dalla Cassazione per il dissesto della “banchina” di Campi Bisenzio. Benché in carcere, gli era stato accreditato un ruolo da mediatore nella nascita del governo di larghe intese di Draghi, riedizione del “patto del Nazareno”. Possibile che la chiamata del sodale Parisi abbia seguito questa via.
Il ministro Gelmini è legata a entrambi da un antico rapporto di amicizia e collaborazione come onorevoli e coordinatori regionali di Forza Italia in Toscana e Lombardia. Ha sempre profetizzato l’innocenza dell’ex plenipotenziario, anche mentre veniva tradotto in carcere. Professione di garantismo estesa d’ufficio allo storico braccio destro. “Confermo la scelta – dice al Fatto – è un collaboratore prezioso, la sua condanna non è definitiva”. Della nomina non si ha traccia, il decreto sarà pubblicato entro 90 giorni. “Non è pronto, se però scopre quali saranno i miei compensi me lo faccia sapere, le sarò grato”, dice lui. L’epilogo è alquanto incerto. Salvo rinvii, dovrebbe celebrarsi l’udienza alla Corte dei Conti che a Parisi contesta 1,5 milioni di euro di contributi indebitamente percepiti. Nelle more di quella, un magistrato della stessa Corte dovrà esprimersi sulla regolarità della nomina, interdizione compresa. Neppure il presunto interdetto, per sua stessa ammissione, ne ha memoria. E il ministro?