Un milione e quattrocentomila studenti in meno. In dieci anni una città come Milano, ma abitata solo da under 30, scomparirà. Sono le previsioni del ministro dell’Istruzione.
L’anno scorso abbiamo registrato il minimo storico delle nascite e il massimo storico delle morti: 384mila persone. Abbiamo scritto: tante quanto ne contiene Firenze. Un cimitero che ci rimanda, per il triste primato, al 1918, l’anno della terribile spagnola.
Se utilizzassimo ancora le città per misurare con un’immagine quel che ci aspetta, dovremmo poi incolonnare le più grandi, Roma, Torino, Palermo, Napoli e nemmeno – se lo facessimo per davvero – riusciremmo a eguagliare il numero monstre dei sei milioni di italiani che perderemo nel 2065, secondo le proiezioni dell’Istat. Se cinquant’anni vi sembrano un periodo troppo oltre il nostro interesse, fermatevi a questa cifra: 2,1 milioni in meno già nei paraggi del 2025, tra quattro anni o poco più, prima ancora che il programma di ripresa e resilienza, il famoso Recovery, possa dirsi concluso.
Italia senza italiani, una corsa all’ingiù dopo anni di declino costante ma silenzioso. Dal pendio al burrone, non c’è che dire. Non basteranno i nuovi immigrati, che tra mezzo secolo saranno comunque il triplo degli attuali residenti (circa cinque milioni) a suturare le ferite che questa desertificazione produrrà.
La popolazione si concentrerà sempre più tra il centro e il nord del Paese (71 per cento del totale), con un sud sempre più stecchito (peserà per il 26 per cento). Se le stime del ministro Bianchi sono corrette, e purtroppo lo sono, da quest’anno e per i prossimi nove perderemo più di centomila studenti all’anno. Bianchi ha spiegato, anche rallegrandosi, che l’organico dei docenti resterà immutato, in modo da avere aule meno affollate e tempo dello studio allungato. Ma quanti laureati in meno, quanti talenti in meno, quanti ingressi in meno di giovani diplomati nel mondo del lavoro? Eravamo il Paese dei cervelli in fuga, una narrazione – a volte persino troppo compiaciuta – che illustrava le qualità italiane nel mondo. Era la cifra dello spreco culturale, di competenze, di energie colpevolmente espulse e liberate altrove.
Di questo passo dovremo però affrontare il crash del capitale umano (e abbiamo avuto già una prova con l’arruolamento degli anestesisti nelle terapie intensive), il buco nella società digitale che stiamo per edificare, perché i nuovi arrivi dal sud del mondo non compenseranno il deficit scolastico che maturerà e scarnificherà la leva super tecnologica che dovrebbe regalarci la qualità del nostro vivere e del nostro produrre.
Ci resta quindi il dubbio che invocare il “modello Genova”, il massimo della spinta efficientista, dell’opera congegnata bene e realizzata meglio al riparo da ogni vincolo, per eseguire il prossimo mirabolante e ricco piano di ripresa, senza fare i conti non solo col tasso di legalità ma con le forze veramente disponibili per far fronte a un dispiegamento così massiccio di impegni, ci porterà altra delusione.
Se oggi la Pubblica amministrazione è alla disperata ricerca di professionalità che la tolgano dalla letargia in cui è sprofondata, che ne sarà domani quando le immissioni in ruolo dovranno misurarsi con la decrescita paurosa dei laureati, dei cervelli che servirebbero per tenere alti gli standard di qualità?
Non è che stiamo facendo le nozze con i fichi secchi?