Ecco alcuni estratti dall’Abbecedario declinato da Serena Dandini insieme alle scrittrici Teresa Ciabatti, Michela Murgia e Chiara Valerio in chiusura del Festival Libere di essere, organizzato da D.i.Re con la co-produzione della Fondazione Musica per Roma, per esplorare il cambiamento culturale necessario a prevenire la violenza.
B – Bellezza. Passare la giovinezza è un sollievo enorme, è una quiete, anche rispetto alla bellezza. Si capisce che la bellezza ce la assegniamo da sole, ce la possiamo dare e togliere noi. E dobbiamo rassegnarci a questo conflitto che ci porteremo appresso sempre. Ma è questo che ci dà profondità, uno sguardo su di noi che cambia continuamente.
B – Body shaming. Il body shaming è un’arma retorica. Quando una intellettuale o una politica si espone, sostenendo un’opinione che può anche essere divisiva, e viene attaccata nel fisico, subisce una violenza enorme, non solo a livello individuale, ma collettivo. Perché tutte le ragazze che vedono quello che le succede pensano: “Se dicessi un giorno una cosa scomoda, questa lapidazione a parole potrebbe succedere anche a me”. E molte staranno zitte prima ancora di aver detto la prima parola che vorrebbero dire. Il fatto che gli intellettuali maschi tacciano quando succede, e non stigmatizzino il body shaming come un attacco fascista perché a loro non succede, è un problema.
C – Cuore. Ci interessiamo sempre agli oggetti o alle persone, mentre invece sono interessanti le relazioni. Pensiamo il cuore sempre come metafora, il motore, come un oggetto, una funzione. Se scompare il cuore forse invece stanno scomparendo altre cose. E se il cuore scompare, ma restiamo in vita, forse ci sono persone intorno a noi che fanno la funzione del cuore. Se il cuore diventa invisibile per i nostri sensi e per le nostre macchine, vuol dire che è andato in un posto dove noi ancora non siamo. Noi umani rincorriamo tutte le cose: la nostra bellezza, il nostro coraggio, il nostro cuore, le nostre parole, che non abbiamo ancora risemantizzato. Ma se le nostre parole sono già lì, in questo posto nuovo, ci andremo anche noi.
D – Denaro. È l’ultimo dei tabu che riguarda le donne. Abbiamo rivendicato molte volte la parola sesso, quella degli anni Settanta si è chiamata rivoluzione sessuale, ma la questione dei soldi non l’abbiamo ancora affrontata. L’abbinamento “donne-soldi” ancora fa scandalo. C’è l’idea che le donne non si debbano occupare di questioni economiche, collegata all’idea che una donna a un certo punto debba sposare un uomo ricco. L’idea che “una donna sia seduta sulla fortuna”, ovvero che la sua fortuna sia il suo corpo. Se non insegniamo alle ragazze che i soldi sono una cosa per femmine, continueranno a pensare che il solo modo di raggiungere la sicurezza economica sia trovare un uomo che gliela garantisce. Non c’è niente di male a guadagnare soldi, a negoziarli, a dimostrare di averli.
F – Femminicidio. Dieci anni fa era una parola considerata superflua. E anche un po’ sgradevole. Dicevano: “A che serve? C’è già omicidio”. Ma femminicidio è l’omicidio di una donna da parte del marito, partner, ex marito, fidanzato… Se non conosci una cosa, se non la capisci e soprattutto se non gli dai un nome, non puoi combatterla. “Ci sono abitudini che hanno luogo di leggi e ci vuole il tempo per mutare le abitudini”, diceva Nicola Santangelo, ministro del Regno delle Due Sicilie quando provò a introdurre il sistema metrico decimale. Così è con le parole. Risemantizzare le parole significa usarle tante volte finché sembrino non solo utili, ma esprimano una cognizione affettiva. Finché non abbiamo una cognizione affettiva della parola, non la usiamo. Un lavoro politico quasi rivoluzionare è proprio usare le parole giuste. E lo possono fare anche gli uomini. Non è che le parole delle donne sono delle donne. Le parole delle donne sono le parole di tutti.
M – Make up. La parola cosmesi ha come radice il greco cosmeo, che vuol dire metto in ordine, non ha a che fare con il bello. È la stessa radice di cosmos, cosmo, cioè sottrarre le cose al caos. La logica è sempre quella dell’ordinare. Infatti quando ci sentiamo brutte diciamo “non mi sento in ordine”, “vado dalla parrucchiera a mettermi in ordine”, “mi trucco perché altrimenti non mi sembra di essere in ordine”. È come se una donna rifiutandosi di aderire al canone estetico, o di servirsi delle scorciatoie con le quali è possibile riprodurlo o almeno avvicinarcisi il più possibile, stia mancando di reverenza all’armonia del cosmo, stia mancando di manutenere un equilibrio generale. Una donna che si tiene in disordine è una donna che non si cura, e quindi non si prende cura implicitamente del senso del bello collettivo. La rivoluzione è rifiutarsi di aderire al diktat del contorno occhi o del rossetto. Oppure risemantizzarlo noi.
S – Subordinate. Ci concentriamo sulle parole, ma dovremmo concentrarci sulla struttura delle frasi. I rapporti causali, modali e temporali della nostra lingua stanno nelle subordinate. Senza tempo, modo e causa non possiamo avere la responsabilità descrittiva delle azioni che compiano o che sono compiute dagli altri, sia nel futuro che nel passato. Utilizzare come, quando e perché anziché solo soggetto, predicato e complemento aiuta a introiettare il principio di causa-effetto e dunque un principio di responsabilità. Essere responsabili linguisticamente significa essere responsabili politicamente e civilmente.
Tutti gli incontri e spettacoli del festival sono disponibili sul canale YouTube di D.i.Re.