Non c’è concime migliore per l’ego dell’autobiografia del leader politico scritta in giovane età, che sarebbe il non plus ultra dell’autopromozione, un monumento a cavallo autocostruito un po’ per celebrazione di sé e un po’ impalcatura per la costruzione di glorie future. In più, ghiotta occasione di riposizionamento, il cui messaggio è: “Ecco come sono veramente”. Davvero bizzarro: gente che ha una vita pubblica piuttosto frenetica, che vive di dichiarazioni, interviste e ospitate in tivù, delle cui idee, posizioni, esternazioni sappiamo tutto, sente il bisogno di raccontarsi per “come è” invece di “come sembra”.
Ora è il momento editoriale di Giorgia Meloni, gratificata di interviste promozionali, soffietti adoranti e domande compiacenti, insomma per il tradizionale bacio della pantofola. Così sappiamo che Giorgia ha avuto problemi col padre, che da piccola era molto chiusa, che la sua grande paura atavica, il suo fantasma, è stato per anni il timore di annegare; brutto fantasma, non male per una che chiedeva di “affondare o demolire” le navi delle Ong che salvavano i migranti dall’annegamento, ma pazienza.
Allo stesso modo, le sezioni missine diventano, nella ricostruzione riveduta e corretta, ameni e romantici luoghi di svago e di cultura, e nessuno si sogna di fare a Meloni qualche domanda un po’ ruvida, tipo perché non caccia dal suo partito i deficienti che si vestono da nazisti, o i governatori che in campagna elettorale andavano alle cene in onore del duce; oppure perché non condanna mai l’esuberanza dei suoi militanti che fanno il saluto romano, ricordano con nostalgia il Ventennio o inneggiano alla marcia su Roma. Insomma, l’autobiografia lava più bianco, pulisce, annulla gli angoli oscuri e rende tutto lindo e pulito.
Ci aveva provato anche Salvini, certo, con un libro che era un compitino da ripetente di terza media – un’intervista in ginocchio, quella, non una vera autobiografia – edito dalla casa editrice di Casa Pound. Lì avevamo appreso che al piccolo Matteo, all’asilo, avevano rubato il pupazzetto di Zorro, il che deve aver generato un qualche imprinting passivo-aggressivo. Poi ci sono i libri di Matteo Renzi, sempre immaginifici e lungimiranti, dai titoli evocativi (“Un’altra strada”, “La mossa del cavallo”), adatti a spiegare le nuove sfide e le prospettive. A lungo termine, si direbbe, anche lunghissimo, visto che piazzarsi sotto il due per cento nei sondaggi garantisce, diciamo così, ampi margini di miglioramento, essendo l’estinzione l’unico peggioramento possibile.
Mettiamo nel mucchietto anche il libro mai uscito di Roberto Speranza, “Perché guariremo”, scritto e stampato ma mai venduto, dato che cantava vittoria sulla pandemia quando la vittoria non c’era: circola clandestino in poche copie sfuggite al macero, e anche lì il mix di retorica e autocelebrazione è piuttosto (letto ora) esilarante, mentre Rocco Casalino preferiva togliersi molti sassolini dalle scarpe, anche lì con frequenti dettagli strappalacrime.
Dunque non basta ai politici occupare tutti gli spazi, monopolizzare i tg, i talk, l’immaginario collettivo, il discorso pubblico. Viene sempre il momento – pare inevitabile – di porre in mezzo al proprio cammino la pietra miliare dell’autobiografia: confessioni di peccati innocentissimi e distratto sorvolo su errori, cretinate e misfatti reali. Intorno, il plauso dei media osannanti, che finalmente possono gioire del “lato umano” di questo o quel leader che si disvela, imperdibile occasione – un’altra! – per genuflettersi al potere.