Il reportage - Anniversari politici

Francia, il vero Mitterrand: il cambiamento storico del 1983

Di Fabien Escalona e Romaric Godin
17 Maggio 2021

Impossibile ricordare il 1981 senza pensare al 1983, anno della famosa “svolta verso il rigore”. Se i socialisti mantennero molte delle loro promesse una volta saliti al potere, l’abbandono delle iniziali ambizioni sul piano economico e sociale segnò in modo spettacolare il primo mandato di François Mitterrand. Invece di lottare contro l’austerità e la disoccupazione, prevalsero gli obiettivi contabili di rispetto dei “grandi equilibri”. Per chi sperava in una società nuova, la questione dell’ineluttabilità di questa inversione di tendenza è cruciale. Da un lato, l’ineluttabilità economica della “svolta del rigore” appare illusoria. Il “vincolo esterno” era reale fino a un certo punto e si sarebbe potuto affrontare facendo scelte diverse.

L’evocazione del “vincolo esterno” si è inscritta nella narrazione catastrofica dell’esperienza socialista, per poter giustificare meglio una politica dettata dall’aumento della disoccupazione di massa, dalla deindustrializzazione del paese e dal deterioramento del lavoro salariato rispetto al capitale, ovvero l’esatto contrario delle aspettative create dalla campagna elettorale. La pista di una ineluttabilità politica appare più promettente. Partiamo dal presupposto che il 25 marzo 1983 costituisce uno dei principali atti fondatori del neoliberismo francese. Non è stato il primo momento della caduta neoliberalista francese (c’era già stato il “plan Barre” del 1976). Né la svolta fu improvvisa, ma era stata preparata da aggiustamenti precoci, iniziati dopo pochi mesi di “potere socialista”. Ma il marzo 1983 resta il momento in cui la politica accettò e rivendicò la sua impotenza di fronte a una realtà economica esterna. Da quel momento in poi, lo Stato ha dovuto “adattarsi” e sostenere il capitale. Da qui l’apertura dei mercati finanziari nel 1984-85 e il rullo compressore neoliberista del 1986-1996. “Il marzo 83 è l’episodio più commentato – conferma il politologo Antony Burlaud –, ma le decisioni più neoliberali, in materia industriale e finanziaria, furono prese l’anno dopo, con il governo di Laurent Fabius”. Da quel momento in poi si disegna una via neoliberalista francese, più moderata di altre, poiché le riforme sociali del 1981 furono mantenute. Ma il contesto era cambiato.

Contrariamente a quanto spesso si crede, la ripresa economica legata alla politica mitterrandiana non fu massiccia. Rappresentò l’1,7% del Pil. Si tradusse principalmente in un aumento del salario minimo dell’8% e dei minimi sociali del 25%, oltre che nell’assunzione di 170.000 dipendenti pubblici. Il debito pubblico si degradò, ma non a livelli disastrosi (circa il 20% del Pil, mentre, a titolo di esempio, il debito britannico, nello stesso periodo, era quasi il 40% del Pil). L’aumento dei tassi di interesse, conseguenza delle politiche statunitensi e tedesche di lotta contro l’inflazione, fu importante, ma relativamente moderata, e i tassi francesi restarono inferiori rispetto a quelli statunitensi e britannici. È quindi principalmente per motivi politici che altre opzioni economiche furono abbandonate. Eppure, l’ultimo congresso prima dell’arrivo al potere, quello di Metz del 1979, era stato l’occasione per una retorica radicale, dal momento che i mitterrandiani avevano reintegrato nella loro maggioranza la turbolenta ala di sinistra di Jean-Pierre Chevènement. Il cui scopo consisteva tuttavia a relegare a destra Pierre Mauroy e soprattutto Michel Rocard e le sue ambizioni presidenziali. Quando vennero elaborate le 110 proposte del candidato Mitterrand, ricorda Mathieu Fulla, ricercatore a Sciences-Po, “si constatò un allontanamento dal progetto socialista del 1980 elaborato da Chevènement. Si dava la caccia agli eccessi, vi era presente un certo volontarismo – in particolare nell’idea di una “riconquista del mercato interno” -, ma senza affermare l’uscita dal capitalismo”. Confrontando il progetto del 1980 e il programma del 1981, Fabien Éloire e Thomas Dallery notano in particolare l’abbandono di una politica monetaria offensiva. Le ambiguità su una dimensione così cruciale della politica economica erano state sapientemente calcolate per perseguire due scopi: da un lato, allentare i timori sollevati dall’Union de la gauche, dando garanzie di credibilità economica; dall’altra, mobilitare i frustrati delle politiche restrittive di Raymond Barre e il “popolo di sinistra”, in parte comunista, che da tempo aspettava il suo momento.

La fine delle ambiguità implicherà poi l’abbandono delle ambizioni più trasformatrici sul piano economico e sociale. Si tradusse anche, sin dal 1981, in una scelta significativa di personalità per l’esecutivo. Pierre Mauroy divenne premier.

Il portafoglio dell’Economia fu affidato all’ex sindacalista cristiano Jacques Delors, che scelse come capo di gabinetto l’ispettore delle finanze Philippe Lagayette e nominò al Tesoro Michel Camdessus, futuro presidente del Fmi. Mitterrand si affiancò di consiglieri come Alain Boublil, che difendeva un socialismo industriale, e i più conformisti François-Xavier Stasse e Élisabeth Guigou. “Alla direzione della politica economica, non troviamo persone con un programma neoliberale costituito, ma dei moderati, piuttosto ortodossi, che aderiscono spontaneamente alle categorie ordinarie dell’amministrazione economica – osserva il ricercatore Antony Burlaud –. Sostenitori dell’economia keynesiana prima di arrivare al governo, una volta al potere ritengono che il “pragmatismo” implica di aggrapparsi al mercato e all’Europa. Sono del resto spesso staccati da ogni forma di militantismo”. Anche prima del drammatico momento del marzo 1983, quando si doveva decidere la questione dell’appartenenza allo Sme (Sistema Monetario Europeo), la politica di rilancio era svincolata da qualsiasi strategia globale e offensiva. Nell’ottobre 1981 fu infatti annunciato un primo piano economico da 15 miliardi di franchi, poi un secondo nel giugno 1982 accompagnato da una misura radicale: la fine dell’indicizzazione dei salari sui prezzi (la famosa “scala mobile”). Una misura diretta contro il potere d’acquisto, con il conseguente aumento della domanda di prodotti importati a basso costo. A partire da questo momento, ogni alternativa all’austerità è, di fatto, abbandonata. Se aggiungiamo l’impossibile ricostruzione dello strumento industriale, le svalutazioni tardive e l’assenza di una politica di investimenti pubblici massiccia e coerente, anche se le nazionalizzazioni vengono portate a termine, ci troviamo di fronte ad un quadro confuso che non si può definire una politica. Ci sono i grandi assenti, come il Pcf, atono, incapace di mobilitare sulle questioni industriali. La presenza di ministri comunisti al governo frena le contestazioni dei sindacati. Tutto ciò permette di capire perché le difficoltà degli anni 1981-83 non hanno portato né ad una radicalizzazione socialista né al mantenimento di una politica di rilancio più autonoma. Per questo, mancano alleati internazionali. Con Margaret Thatcher a Londra e Ronald Reagan alla Casa Bianca, le destre britanniche e statunitensi si sono convertite al neoliberismo duro. “I socialdemocratici britannici e tedeschi erano all’opposizione. Per quanto riguarda i socialisti dell’Europa meridionale – osserva lo storico Gilles Vergnon, docente a Sciences-Po Lyon –, la loro principale ambizione era di proteggere la nascente democrazia dei loro paesi aderendo al club europeo e atlantista. Ciò non impedirà una certa delusione nei confronti della normalizzazione francese”. Se la svolta del 1983 è stata ineluttabile, è perché, in un contesto avverso, gli attori chiave della politica economica, e il primo dei decisori, il capo dello Stato, non erano pronti a addossarsi tutte le conseguenze dell’ambizione “modernizzatrice” dei socialisti. Le nazionalizzazioni, il controllo del credito e gli investimenti pubblici avrebbero potuto essere una risposta adeguata alla natura strutturale della crisi del capitalismo, servendo al tempo stesso gli interessi della maggioranza sociale. Ma questo avrebbe necessitato un disegno chiaro per affrontare degli interessi potenti, e di essere sostenuti da forze politiche e sociali con un alto livello di consapevolezza della posta in gioco.

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