La parola cura ha una radice indoeuropea che si ricollega al verbo “osservare”. Cosa ci racconta questo vocabolo così ampio e metaforico, che rischiamo di ridurre al solo significato medico e patologico? L’etimologia ci ricorda che per prendersi cura di qualcuno bisogna prima guardarlo attentamente, fermarsi a studiare i suoi bisogni, ad ascoltare la sua storia. La cura, dunque, implica la conoscenza, la necessità di entrare in una dimensione intima della relazione, di penetrare la superficie del rapporto per instaurare un legame profondo. Solamente così si possono mettere in atto delle strategie utili ed efficaci per la persona di cui ci stiamo occupando. Forse è per tutta questa complessità che di cura, in tutto il mondo, si occupano principalmente le donne.
Da trent’anni a questa parte il 70% dei migranti economici del pianeta è donna. Arrivano da noi quasi sempre per assistere qualcuno: anziani, bambini, fragili, malati. E ancora: appartamenti, alberghi, palazzi, servizi. Cura dei nostri affetti più cari, cura dei nostri spazi. Pulizia dei corpi, pulizia delle proprietà. Se tutto è in ordine quando torniamo dal lavoro, se stiamo tranquilli quando affidiamo i nostri affetti è perché a gestirli e a sorvegliarli c’è questo esercito di donne, “portatrici di cura”, come dicono gli inglesi, che le chiamano caregiver. E non è un caso che dove si usano parole migliori, ci sono anche condizioni lavorative migliori. Dove invece usiamo parole più degradanti – badante, ad esempio, che vuol dire colui o colei che tiene buono qualcuno, che fa rimanere seduto l’alunno irrequieto, che sa mettere a cuccia l’animale – anche le condizioni rischiano di assomigliare alla lingua. Del resto la forza delle parole non sta nell’indicare gli oggetti, ma nel rivelare i nostri pensieri.
Niente di nuovo sotto il sole, direte. Vero, niente di nuovo. Eppure non ne parliamo, non mettiamo a fuoco quegli elementi che, a volerli osservare, sono davanti ai nostri occhi. Di questa migrazione silenziosa, infatti, non si parla quasi mai: nemmeno il leader più conservatore e populista si permetterebbe di metterla in discussione perché quasi certamente anche lui ha affidato un suo parente a una donna moldava o rumena, quasi certamente la sua casa e le scale del suo palazzo sono tenute pulite da una donna peruviana o filippina. Il nostro sistema si regge su queste donne che, come sappiamo, non sono solo donne, ma quasi tutte madri. Difficile che si emigri dall’altra parte del mondo, che si stravolga il proprio orizzonte di vita, di ambizioni, di affetti, solo per sé stesse. Lo si fa per gli altri, i figli in primis. Ecco che cos’altro rischiamo di perdere di vista: che portare cura a qualcuno vuol dire toglierla a qualcun altro. Queste donne la portano a degli estranei e la tolgono alle loro appartenenze. Nel mondo, dunque, ci sono milioni (sì, milioni) di bambini e di ragazzi left behind, lasciati indietro. Più invisibili ancora delle loro madri, chiuse h 24 nelle nostre case, alloggiate nelle nostre vecchie camerette.
C’è, infatti, chi non può nemmeno scegliere se partire o restare, ma può solamente aspettare: un ritorno, un ricongiungimento, un segnale. Di solito questo cenno i bambini e i ragazzi lo attendono attaccati allo schermo degli smartphone o dei pc ma – lo abbiamo visto anche noi in questo anno terribile – dopo un po’ ti stanchi di parlare attraverso uno schermo. Nella vita di un altro o ci sei o non ci sei. Così, se è vero che queste donne portano non solo cura ma emancipazione – riescono molto spesso a far studiare i loro figli, a dar loro possibilità simili a quelle che noi riusciamo a dare ai nostri – è altrettanto vero che il contrappasso che scontano è tremendo: vivono una vita a distanza, una “vicevita”, come direbbe il poeta Valerio Magrelli. Diventano donne-bancomat: sostengono qualcuno che amano ma che non vedono, che hanno messo al mondo ma con cui non vivono. Nel mio romanzo ho raccontato di una donna rumena, madre di due figli, nemmeno cinquantenne, che viene a lavorare a Milano. Ma se avessi preso come protagonista una donna che arriva dall’altra parte dell’oceano avrei dovuto tenere in considerazione che le volte in cui tornano a casa sono decisamente minori e a volte i figli non le riconoscono nel senso vero del termine.
Come delle creatrici di ponti, queste donne congiungono mondi, uniscono popolazioni, tengono insieme famiglie distanti e amori lontani, mani diventate tremanti e corpi divenuti insicuri. A volte le parole sono da riscrivere e da cambiare: visto che danno e portano cura, non sarebbe meglio chiamarle curanti? E quando se ne parla, specialmente adesso che la questione delle pari opportunità viene fuori con più forza e precisione, non sarebbe più giusto sottolineare il coraggio di chi prova a lanciarsi nel vuoto, a raccontarne e ascoltarne le storie, che hanno sempre il potere di farci sentire parte in causa e che sanno costringerci a un esercizio di empatia liberandoci dalla prigionia degli stereotipi?