Non so proprio da dove cominciare. Ma sì, forse dalla vigilia della nascita del Fatto. Estate 2009. Francuzzo mi chiama per sapere come vanno i preparativi: “Caromarco (lo diceva tutto attaccato con quella voce di seta, nda), ti devo fare un regalo. Una canzone che ho scritto con Sgalambro e anche con te, ma a tua insaputa. Dammi una mail”. Gliela do. Poco dopo, dalla sua – col nome storpiato di Joe Patti, un suo zio emigrato in America – mi arriva la traccia ancora provvisoria di Inneres Auge (l’occhio interiore o il terzo occhio, in tedesco). La ascolto e capisco: “Uno dice: che male c’è / a organizzare feste private / con delle belle ragazze / per allietare primari e servitori dello Stato? / Non ci siamo capiti./ E perché mai dovremmo pagare / anche gli extra a dei rincoglioniti? / Che cosa possono le leggi / dove regna soltanto il denaro? / La giustizia non è altro che una pubblica merce…”.
Parlava di B., anzi di quelli che con argomenti fallaci giustificavano i suoi scandali. Poi dal basso più infimo – come sempre faceva lui, dissimulando la sua sterminata cultura e la sua sconfinata spiritualità – si elevava improvvisamente verso l’alto: “La linea orizzontale ci spinge verso la materia, / quella verticale verso lo spirito /… Inneres auge, das innere auge. / Ma quando ritorno in me, / sulla mia via, a leggere e studiare, / ascoltando i grandi del passato, / mi basta una sonata di Corelli, / perché mi meravigli del creato”.
Francuzzo era così: leggero, soave, delicato, spiritoso, sorprendente, puro, naïf. Come il bambino che urla “il re è nudo!”. Ricordo il suo sincero, candido stupore per la ridicola canea che si era levata quando, al Parlamento europeo, s’era permesso un giudizio sugli abitanti di quello italiano: “Queste troie che stanno in Parlamento farebbero qualsiasi cosa. È una cosa inaccettabile. Aprissero un casino”. Apriti cielo. Le solite voci del padrone lo accusarono – pensate un po’ – di sessismo e di antipolitica. Salvini gli diede del “piccolo uomo”. La Boldrini del “disdicevole”. E lui: “Ma io parlavo dei politici, più uomini che donne, che si vendono al miglior offerente. Come li chiami tu, se non troie? Cazzo c’entra il sessismo?”.
Per quello, dopo soli cinque mesi, fu cacciato da assessore alla Cultura della sua Sicilia, per ordini superiori dai palazzi e dai colli di Roma: “Ecco, vedi? Sono proprio delle troie, ahah!”.
Nel 2012 gli proponemmo di tenere un blog sul nostro sito. Gli scrisse la nostra Paola Porciello. Lui rispose così: “Cara Paola ecco la mia proposta: 4 brevi pensieri di mistici, splittati in 4 settimane e sempre lo stesso giorno (della settimana). È una scelta ‘contro’, e so bene che vi potrà creare un qualche problema. Mi faccia sapere. f.”.
Ne scrisse sette in tutto, dedicati ai grandi del misticismo e dell’eresia di ogni religione. E nello spazio autobiografico si descrisse così: “Nato parecchi anni fa a Jonia (CT), compositore-cantante e regista. Negli anni 70 con la sua musica di ricerca ha attraversato le avanguardie europee. Alla fine degli anni Settanta passa alla musica di larga comunicazione alternandola a opere classiche”.
Solo lui poteva vendere milioni di dischi con le canzonette (Un’estate al mare per Giuni Russo) e con le “correnti gravitazionali”, le gurdjieffiane “èra del cinghiale bianco” e “alba dentro l’imbrunire”, con “lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco e“il senso del possesso che fu prealessandrino”.
A proposito. Nei concerti non voleva mai cantare Il sentimiento nuevo: “È una cosetta da nulla, lo riempitivo della Voce del padrone, non mi va”. Ma una volta, sapendo che ero tra il pubblico, la infilò nei bis: “Questa è per un mio amico che s’è fissato. Giudicate voi!”.
E solo lui, captando visioni da mondi lontanissimi, poteva predire con un anno d’anticipo (Povera Patria, ’91) l’Italia delle stragi e di Tangentopoli, “schiacciata dagli abusi del potere / di gente infame che non sa cos’è il pudore… / Tra i governanti / quanti perfetti e inutili buffoni… / Ma non vi danno un po’ di dispiacere / quei corpi in terra senza più calore? / Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali? / Nel fango affonda lo stivale dei maiali”.
Da qualche anno, dopo la caduta al Petruzzelli di Bari causata dalla stretta di mano troppo prolungata di un fan sotto il palco, la frattura del femore e l’operazione in anestesia totale, era andato via via svanendo. Il destino l’aveva colpito proprio alla testa. Malattia mai diagnosticata, perché non voleva medici fra i piedi. Nei concerti aveva iniziato a scordarsi i testi e a sbagliare gli attacchi. Un po’ ne rideva e un po’ ne soffriva. Nel 2015 eravamo insieme a Ottoemezzo: rispondeva a Lilli Gruber a monosillabi, beffardo e tranchant nella sua strepitosa essenzialità. “Berlusconi? Non è il mio tipo”, “Salvini? Cambio canale”. L’ultima volta che salì su un palco era quello di Renato Zero, ad Acireale, nel 2017: attaccò La cura in ritardo e ne uscì una versione rara tutta speciale, una specie di Gronchi rosa in musica.
Due anni fa, per il suo 74° compleanno, il fratello Michele e l’agente Franz Cattini riunirono parenti e amici nella sua casa di Milo, alle pendici dell’Etna. Carlo Guaitoli si mise al piano e cantammo un po’ di repertorio. Lui ci guardava felice. E ogni tanto usciva con una battuta, l’aria del bambino che ha fatto una marachella. Ma il suo spirito se n’era già andato da qualche altra parte, nomade in cerca degli angoli della tranquillità. L’altra notte li ha trovati tutti. Ora è finalmente libero.