Una cosa, almeno, la pandemia ce l’ha fatta capire: il sistema sanitario non era pronto ad affrontare un’emergenza che rischia di diventare una normalità. Ora, lo dobbiamo ai morti di Covid: cambiare sistema, renderlo più capace di far fronte alle pandemie, per non farci trovare di nuovo impreparati la prossima volta. Tanto più in Lombardia, che è stata l’area con più morti al mondo.
Abbiamo imparato qualcosa da questa tragedia? Pare di no. Lo dimostra la via intrapresa da Letizia Moratti, assessore e vicepresidente della Regione Lombardia, che ha presentato una specie di bozza di riforma sanitaria regionale. Cambiare è certamente necessario: lo dimostrano non soltanto il tracollo del sistema sanitario davanti al Covid, ma anche il pasticcio della riforma del 2015 di Roberto Maroni, che alla supremazia del privato introdotta da Roberto Formigoni ha aggiunto la debolezza della sanità territoriale, sacrificata in nome della iper-ospedalizzazione del sistema. Cambiare è ora anche possibile, perché arrivano i soldi europei del Pnrr. Ma bisogna cambiare bene, altrimenti la riforma si risolverà nell’ennesima controriforma all’italiana.
E dunque: il primo problema da affrontare è lo spezzettamento delle regole e dei sistemi. Venti sanità regionali, che viaggiano ciascuna sui suoi binari, non fanno un buon servizio alla salute dei cittadini. È emerso chiaramente nei mesi della pandemia e ora deve essere posto come il primo dei problemi: i venti sistemi, se proprio non si possono unificare in un’unica sanità nazionale (di cui, confesso, provo nostalgia), devono almeno essere coordinati, raccordati, resi uniformi e non contraddittori. Poi le linee guida, per tutti, devono essere quella del rafforzamento reale della medicina di territorio, del rafforzamento della sanità pubblica rispetto a quella privata e della semplificazione dei rapporti tra territorio e ospedale. Ebbene, partiamo male.
Moratti promette investimenti nella sanità territoriale per 700 milioni di euro. Vedremo se e come saranno realizzati. Sul rafforzamento del pubblico, invece, silenzio: è prevedibile che i privati continuino a crescere a scapito del pubblico. Moratti promette anche il consolidamento del ruolo di guida dell’assessorato e della direzione generale Welfare, per sanare lo spezzettamento degli interventi delle Ats (le aziende sanitarie territoriali) ora lasciate senza una regia unitaria.
C’era chi aveva proposto l’unificazione delle Ats in un’unica Ats regionale, ma la proposta è stata lasciata cadere. Essenziale sarà comunque rendere chiari i compiti rispettivi di Ats e Asst (le aziende ospedaliere) e i rapporti tra loro, oggi pasticciati e fonte di inefficienze. Alle Asst, secondo la proposta Moratti, spetterà l’erogazione dei servizi sanitari, mentre le Ats si occuperanno di controlli, accreditamenti, acquisti, programmazione, contratti.
Ma saranno davvero sciolti i nodi che oggi rendono farraginosi i rapporti Ats-Asst? Non sembrerebbe, se è vero che le Asst continueranno a gestire sia la sanità ospedaliera che quella territoriale, perpetuando la confusione di ruoli e funzioni. Per rafforzare il territorio, saranno creati i Distretti (già annunciati ma non realizzati dalla riforma Maroni): uno ogni 100 mila abitanti, serviranno a valutare il bisogno locale, la programmazione territoriale e l’integrazione tra medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, specialisti, infermieri, assistenti sociali, con un uso centrale della telemedicina. Nasceranno le Case della comunità (una ogni 50 mila abitanti: ma il Pnrr non ne prevede una ogni 20 mila?), le Centrali operative territoriali (per coordinare la presa in carico dei pazienti fragili e i servizi domiciliari) e gli Ospedali di comunità (strutture per i ricoveri brevi, una per ogni Asst). La strada è tutta in salita.