Ipocriti e demagoghi come sempre, quasi tutti i leader si stracciano le vesti e si lamentano perché il boss pluriassassino, Giovanni Brusca, è stato scarcerato dopo 25 anni di prigione. “Questa non è la giustizia che gli italiani si meritano”, dice Matteo Salvini. “L’idea che un personaggio del genere sia di nuovo in libertà è inaccettabile” gli fa eco Giorgia Meloni. “La sua uscita dal carcere fa venire i brividi. È impossibile credere che un criminale come lui possa meritare qualsiasi beneficio”, afferma Antonio Tajani. Mentre Virginia Raggi twitta: “È una vergogna, è un’ingiustizia per tutto il Paese”.
Il rosario degli interventi è lungo e comprende esponenti di ogni colore. Qualcuno, è vero, ricorda che Brusca è arrivato a fine pena perché, come ha stabilito una legge voluta proprio da Giovanni Falcone, ha goduto degli sconti sulle condanne riservati ai collaboratori di giustizia. Ma nel complesso ciò che giunge alle orecchie dell’opinione pubblica è solo il disgusto della classe politica per l’avvenuta scarcerazione.
I politici, insomma, fanno di tutto per dimostrare che la pensano come i loro elettori. I quali, però, a differenza degli eletti, hanno il pieno diritto di esprimere solo i propri sentimenti, senza preoccuparsi del bene comune. Chi fa politica, invece, ha doveri in più rispetto ai normali cittadini. In questo caso, il dovere del politico è quello di spiegare che Brusca è libero perché ha fatto scoprire centinaia di delitti e soprattutto ha fatto condannare o arrestare altre centinaia di assassini come lui, che senza le sue parole (e quelle dei suoi colleghi collaboratori di giustizia) sarebbero ancora liberi di sparare, uccidere, chiedere il pizzo, trafficare droga.
Ricordare che non esistono mafiosi disposti a pentirsi e fare i nomi dei loro complici senza averne un grosso vantaggio in cambio è il minimo sindacale richiesto a chi si fa eleggere in un paese in cui vaste aree sono ancora saldamente controllate dalla criminalità organizzata. E se non lo fa chi va a caccia di voti perché timoroso di non piacere ai suoi elettori, dovrebbe farlo almeno chi sta al governo. Dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, invece, non arriva nemmeno una parola. Lei di mafia parla poco o non parla. E quando lo fa lascia la sgradevole sensazione di non essere contraria all’estensione dei benefici carcerari e di pena pure ad altri boss pluriomicidi che, però, a differenza di Brusca si rifiutano di accusare i loro complici.
Nell’aprile del 2020, nella sua ultima relazione da presidente della Corte costituzionale, la neo ministra ha dedicato un’intera pagina del suo intervento a una sentenza della Consulta (definita “di particolare rilievo”) che ha dichiarato illegittimo il divieto di concedere permessi premio agli ergastolani condannati per mafia o terrorismo che non si fossero pentiti. A quella sentenza quest’anno ne è seguita un’altra. Che invita il Parlamento ad approvare entro 12 mesi una legge che stabilisca in quali casi un mafioso non pentito condannato all’ergastolo (per esempio i boss stragisti Bagarella, Santapaola e Graviano) possa accedere alla libertà vigilata dopo 26 anni di carcere.
Bene, scarcerare dopo un quarto di secolo un pluriassassino che ha collaborato fa schifo. Mettere fuori chi non ha detto una parola fa un milione di volte schifo. Anche perché significa la resa dello Stato. Visto che sarà il ministero retto da Cartabia a doversi occupare della legge richiesta dalla Corte costituzionale, la ministra vuole dirci esplicitamente come pensa che vada scritta? Si attende cortese risposta.