L’intervista

Pinar Selek, la figlia che resiste – L’intervista alla scrittrice che partecipa al festival WeWomen

“Coraggiosi si diventa”: l’autrice a Milano per “We Women”

Di Michela A.G. Iaccarino
7 Giugno 2021

Dicono che il tempo aiuti a dimenticare, ma a volte è il contrario: ti concede la memoria. Se mentre ricordi scrivi, puoi tornare alla casa da cui ti hanno costretto a fuggire, anche solo con le parole. Quelle audaci di Pinar Selek, sociologa e femminista turca, attivista e icona di lotta per i diritti umani, arrivano da Parigi, dove vive in esilio da ormai molti anni, per evitare la persecuzione delle autorità di Ankara. La scrittrice, sabato al festival We Women, organizzato a Milano dalla Fondazione Feltrinelli (con il Fatto media partner), dice di essere una “fille de la resistence”, una ragazza della resistenza: “Sono nata in uno Stato dal regime autoritario, figlio di un governo di repressione e violenza, ma anche in un Paese di persone che si oppongono e io sono una figlia di questo resistere”.

Pinar, lo testimonia la sua vita intera, una lotta senza interruzione.

Quando cominci ad agire e diventi una militante, incontri persone che stanno facendo la stessa cosa e condividono con te la resistenza. Questo ti rafforza. Io riesco a vedere la violenza personale che ho subito come un tassello di quella più grande, subita da tutti, e questo la rende meno greve.

Ha dedicato la sua vita alla documentazione e difesa delle donne, del popolo curdo, degli armeni, che non hanno mai visto riconosciuto il loro genocidio dal governo turco.

Se non riconosci un genocidio, quel crimine diventa perpetuo e continua su altri popoli, come su quello curdo. C’è chi dice che si tratti di passato, ma non lo è. Il negazionismo diventa più esteso e potente, è pericoloso non solo per la popolazione turca, ma per tutta la regione. Il nazionalismo, il militarismo e il sessismo si rafforzano l’un l’altro.

In patria è stata perseguitata per oltre 15 anni per un crimine mai commesso: complicità nell’esplosione del bazar delle spezie di Istanbul nel 1998.

Il mio processo dura da 23 anni, ma è la dimostrazione della continuità di un regime repressivo, che purtroppo tutti pensano sia nato negli ultimi anni, ma è molto più antico. Perseguita minoranze e militanti di sinistra, è un meccanismo che ha radicalizzato la contestazione, è per questo che i curdi sono andati sulle montagne da tempo. Il governo ha paura di tutti, la crisi politica è profonda, la violenza totale e costringe tutti a vivere in un’inquietudine permanente.

Alcune lotte, come quelle femministe, vengono represse: non solo il Turchia, in tutto il mondo.

Il neo-conservatorismo e il neoliberalismo rivitalizzano l’ordine patriarcale. C’è un tipo di pensiero neo-fascista che è quello che reprime al pari, per esempio, donne e migranti. È lo stesso modo di pensare che opprime diversi gruppi sociali, da quel fronte arriva la minaccia. Per questo ho organizzato la manifestazione trasnazionale, femminista e antimilitartista “Toute aux frontiere”. La nostra resistenza continua.

Ma il coraggio per compierla può esaurirsi?

Non si nasce coraggiosi: si diventa coraggiosi. Il coraggio ha delle fonti: il mio sono les autres, gli altri, la mia coscienza, i miei amici, gli esempi di resistenza nel mio Paese. Mi rinforza la letteratura, la sociologia mi nutre. E poi scrivo romanzi. E non è innato: il coraggio si apprende e si coltiva. Io ho avuto l’opportunità di farlo in famiglia: mio padre era un difensore dei diritti umani, è stato 5 anni in carcere quando ero piccola. Mio nonno ha fondato negli anni ’50 il partito di sinistra turco. La nostra casa era uno spazio di incontro di tout le monde e tutti erano “famiglia”. Da allora, vedo il mondo come “una grande famiglia”.

La casa privata di ognuno, la casa collettiva della patria e quella ancora più estesa della famiglia umana. La parola casa è il nucleo del suo ultimo libro: “Lontano da casa” (Fandango).

È un romanzo un po’ surrealista dove si incontrano personaggi erranti, che questionano l’essenza dello spazio, che interagiscono con il concetto di casa come rifugio, che subiscono il peso delle frontiere che possono diventare prigioni per le persone. E quando parlo di frontiere, non intendo solo quelle geografiche, ma anche sociali, culturali. Scrivo di come ho cominciato a interrogarmi su cosa sia l’esilio e cosa sia la casa: se la perdi, diventi nomade, come diceva Virginia Wolf.

La frase della scrittrice britannica è “Come donna non ho paese, come donna il mio paese è il mondo intero”. Un aforisma cui fa eco una frase del suo libro: “Avete rubato le nostre montagne, ma siamo noi le montagne!”.

Diventiamo montagne che viaggiano, si muovono e danzano quando cominciamo a comprendere ed esprimerci, a resistere. Solide e attaccate alla terra, ma mai immobili. E se resistiamo, diventiamo ancora più grandi.

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