Esattamente dieci anni fa, il 12 giugno del 2011, 26 milioni di italiani si recarono alle urne per chiedere senza mezzi termini che l’acqua restasse un bene di natura esclusivamente pubblica e che da essa non si traesse profitto. Quella volontà popolare è stata rispettata? Per nulla.
Oggi gli italiani si ritrovano, spesso senza saperlo, con una ridda di società per azioni (con la sola eccezione di Napoli) a partecipazione sia pubblica che privata, che dividono la maggioranza degli utili tra gli azionisti, con buona pace di quanto chiesto dai cittadini. In queste aziende si trova un po’ di tutto, comprese multinazionali e fondi di investimento stranieri. E la ragione è chiara: non esiste un investimento migliore, visto che si tratta di un regime di monopolio, in cui le tariffe sono assicurate e non esiste obbligo di investimenti nella rete. E infatti, con buona pace di chi lega libero mercato ed efficienza, a dieci anni da quel referendum il risultato è che le perdite idriche della rete sono aumentate, secondo l’Istat, del 42%, contro una media europea che si aggira tra il 15 e il 18%. Le bollette, invece, salgono, come ha mostrato una ricerca della Cgia Mestre, che ha stimato un aumento del 90% solo tra il 2007 e il 2017.
Intendiamoci: questo modello fa comodo anche ai Comuni che, incapaci di gestire il servizio idrico (anche per i tagli selvaggi), intascano i dividendi con i quali magari finanziano altri servizi, “in una logica del tutto insensata” come spiega Paolo Carsetti del Forum dei Movimenti per l’Acqua, che oggi sarà in piazza a Roma per manifestare perché la volontà del referendum venga rispettata.
Se oggi ci troviamo in questa situazione è colpa solo della politica, che in dieci anni, nonostante i governi e le maggioranze che si sono mano mano succeduti, non ha messo mano a una legge che ripubblicizzasse l’acqua. Non lo hanno fatto i governi di destra – anzi Berlusconi tentò a un mese dal referendum un colpo di mano per abrogare l’esito della consultazione, bloccato dalla Corte costituzionale – ma non sono riusciti a farlo neanche i Cinque Stelle al governo (eppure una delle stelle simboleggia proprio l’acqua pubblica), nonostante la proposta di legge della loro deputata Daga, che giace da anni in commissione Ambiente.
La situazione non può però che aggravarsi con l’attuale Recovery Plan: che sì destina alcuni fondi, comunque pochi, all’ammodernamento delle reti, ma conferma il modello di governance attuale, cioè quello della società per azioni che produce utili, che si vorrebbe espandere anche al Sud. “Una pietra tombale sul referendum”, la definisce sempre Carsetti. Eppure la ripubblicizzazione non ha nulla a che fare con una sorta di nazionalizzazione “sovietica”, temuta dai liberisti. Anzi, si tratta di “scelta riformista, che viene promossa in pieno da tutti gli organismi internazionali, le norme europee e persino la nostra stessa Costituzione, a partire dall’art. 43”, spiega il costituzionalista Gaetano Azzariti. Tant’è che molte città europee stanno tornando indietro, togliendo l’acqua ai privati e restituendola in mano pubblica.
In tutto ciò, non si può ignorare che siamo nel mezzo di una crisi climatica che diminuirà nei prossimi anni la disponibilità idrica. Dare una risorsa vitale finita e a rischio in mano a privati è un atto suicida. Unita anche alla scellerata quotazione in Borsa che oggi comincia a essere possibile in alcuni Paesi, la privatizzazione dell’acqua rischia di mettere in ginocchio anche tutte le piccole imprese, specie agricole, che in futuro non avranno abbastanza soldi per garantirsela, così come i cittadini a basso reddito che si vedranno recapitare bollette che non sono in grado di pagare. Quei cittadini che magari, dieci anni fa, avevano chiesto, democraticamente, che ciò non avvenisse.