“Per settimane non sono riuscita ad accedere ai corsi online. Mi sono sentita esclusa”, osserva Gloria, 13 anni, che vive sulle alture di Camaragibe, un sobborgo di Recife. La sua casa è piccola piccola, tre stanzette esigue, neanche un tavolo. Nel marzo 2020, qualche settimana dopo l’inizio della pandemia, il governo locale ha attivato la didattica a distanza. Ma, non avendo gli strumenti adeguati, l’adolescente non ha potuto seguire i corsi online. Il suo insegnante, Arthur Cabral, ha notato che all’appello mancavano una ventina di allievi. Allora, ogni venerdì, ha cominciato a percorrere in lungo e in largo il quartiere per distribuire a mano le fotocopie dei corsi ai suoi allievi. Si è reso conto che alcuni di loro non avevano né il cellulare né l’accesso a Internet, altri disponevano di un solo computer in casa per tutta la famiglia. La storia di Arthur l’ha raccontata un quotidiano locale e da allora sono cominciati a piovere doni, soprattutto telefoni.
Un poco alla volta quasi tutti i suoi studenti hanno potuto ricevere un dispositivo con la connessione ad internet e raggiungere i compagni online. Per Darla, la madre di Gloria, è stato “un dono del cielo”: “Senza, non ce l’avremmo mai fatta”. Darla, che già aiuta gli altri tre figli più piccoli negli studi, è tornata anche lei al liceo lo scorso anno. Nel suo piccolo, Arthur cerca di mitigare i danni della pandemia, ma punta il dito contro le autorità che, a sua avviso, non fanno abbastanza: “È snervante! A marzo, il presidente Bolsonaro ha avuto la faccia tosta di bloccare un progetto di legge che avrebbe favorito l’accesso a Internet ai più svantaggiati”. In Brasile, 4,3 milioni di studenti non hanno accesso alla rete per seguire le lezioni online. A fine aprile, nella regione di Recife, i ragazzi sono tornati in classe, ma a settimane alterne. Ora che in Brasile la situazione epidemiologica torna a aggravarsi, le scuole potrebbero chiudere di nuovo. Il deputato Israel Batista, iniziatore del progetto di legge in questione, accusa il governo di aver “abbandonato l’istruzione durante la pandemia. In un paese grande quanto un continente – dice -, il ministero dell’Educazione non dà nessun aiuto alle autorità locali”. In Brasile, l’istruzione primaria e secondaria è principalmente di competenza dei municipi e dei singoli stati dell’Unione, ma il governo federale, che decide la politica generale, conserva un potere decisionale importante, anche sui finanziamenti. “La maggior parte dei paesi dell’OCSE ha incrementato gli investimenti nel settore dell’educazione durante la pandemia, qui invece li hanno tagliati”, sottolinea il deputato. Il budget 2020, inferiore del 10% rispetto a quello del 2019, è stato il più basso degli ultimi dieci anni. Secondo Andressa Pellanda, coordinatrice della Campagna nazionale per il diritto all’educazione, “queste politiche di austerità non sono una risposta efficace alla crisi”. Né, secondo lei, ci si può aspettare un miglioramento del sistema educativo fintanto che Jair Bolsonaro resta al potere. “La pandemia non ha modificato neanche di una virgola l’agenda ultraconservatrice del governo, che porta avanti a testa bassa la sua crociata fondamentalista”. Quattro ministri si sono succeduti all’educazione dall’inizio del mandato di Bolsonaro e tutti si sono attenuti alla linea del governo. “A Bolsonoro interessano di più i social network”, si dispera Israel Batista. Il governo, spiega, “ha dato la priorità all’homeschooling favorendo le poche migliaia di famiglie che vivono in condizioni più confortevoli, voltando le spalle a milioni di studenti vulnerabili”. Gli abbandoni scolastici sono quasi raddoppiati nel 2020: 1,38 milioni di studenti tra 6 e 17 anni hanno lasciato gli studi, secondo l’IBGE, l’istituto di statistica nazionale.
La precarietà in cui vivono sempre di più i più modesti aggrava il fenomeno. Dopo aver soppresso i sussidi d’urgenza introdotti all’inizio della pandemia, il governo ha deciso di riattivarli, ma riducendoli di molto: i 1200 reais (186 euro) per una madre sola sono diventati 375 (58 euro). Per Darla, la mamma di Gloria, che vive di sussidi, è un duro colpo e la fame si fa sentire. Con la pandemia, Darla, venditrice ambulante, non vende più nulla: “Ho provato a chiedere un prestito, ma non me lo hanno concesso. I prezzi continuano a salire. È difficile dire ai miei figli che hanno fame che non c’è niente da mangiare in frigo”. I bambini che ricevevano tre pasti al giorno a scuola, ora non hanno più nulla. Nella regione di Recife, le famiglie ricevono in compenso 50 reais a settimana a figlio. Un aiuto gradito ma insufficiente, e che non tutti riescono a ottenere. Ecco perché Arthur, l’insegnante, nel suo giro settimanale, oltre alle fotocopie dei corsi, porta anche alcuni prodotti di base alle famiglie in difficoltà. “Per poter studiare, si deve mangiare, e per queste famiglie sfamarsi sta diventando sempre più difficile. Spero di contribuire ad evitare che dei giovani abbandonino gli studi per mettersi a lavorare”. “Esiste un legame diretto tra abbandono scolastico e lavoro minorile”, spiega Eduardo Paysan, presidente del Comdica, il Consiglio comunale per la difesa dei diritti dei bambini e degli adolescenti di Recife. Prima della pandemia, 1,8 milioni di bambini e adolescenti lavoravano in Brasile, un numero in leggera diminuzione dal 2017. Non esistono ancora dati statistici dall’inizio della crisi sanitaria, ma studi parziali in diverse città indicano una tendenza al rialzo. A San Paolo il lavoro minorile è aumentato del 26%, secondo un’inchiesta portata avanti dall’Unicef su 52.000 famiglie in difficoltà. A Recife sono sempre più numerosi i bambini e gli adolescenti che lavorano nelle strade: vendono snack ai semafori, rovistano nei cassonetti alla ricerca di materiali riciclabili o fanno consegne a domicilio tramite le app mentendo sulla loro età. “Questa parte del fenomeno è visibile. Ma esiste anche una parte meno visibile, quella dello sfruttamento sessuale. Certe famiglie trattano i bambini come merce e ottengono cibo in cambio di sesso – osserva Eduardo Paysan –. Le politiche pubbliche si degradano e chi ne subisce di più le conseguenze sono i più svantaggiati”. La lotta al lavoro minorile non è una priorità per il presidente Bolsonaro, che, al contrario, lo difende. Nel 2020 ha accennato ai “vecchi bei tempi in cui i minorenni potevano lavorare. Ora possono fare qualunque cosa, compreso fumare il crack – aveva detto – basta che non lavorino”.
Al di là delle dichiarazioni di Bolsonaro, Eduardo Paysan denuncia lo smantellamento, a livello nazionale, delle strutture che erano preposte alla lotta contro il lavoro minorile. “È ancora profondamente radicata la cultura arcaica per cui il lavoro forgerebbe il carattere dei bambini”, osserva, desolata, Thays Silva, assistente sociale a Recife. Thays sa di cosa parla. Suo padre, che ha iniziato a lavorare molto giovane, non voleva che lei andasse a scuola. Thays è stata la prima della sua famiglia a poter studiare, ma grazie alla determinazione di sua madre. Gli assistenti sociali ricevono le segnalazioni dei casi di lavoro minorile e altri abusi ai danni dei minori all’interno della comunità e si confrontano con gli insegnanti per identificare i bambini che soffrono. Dopo le dovute verifiche, trasmettono la segnalazione alle strutture competenti. “Fare il nostro lavoro è diventato più complicato con la pandemia. La scuola funge da rete di protezione, che è venuta a mancare con la didattica a distanza”, spiega la giovane donna, che dovendo limitare le visite a causa della pandemia, si sta concentrando sui casi più gravi. Ci sono giorni in cui Thays, che è molto stanca, si sente abbattuta e non riesce a trattenere le lacrime quando parla dei giovani che si lasciano trascinare sempre di più nei traffici di droga. “È una delle peggiori forme di lavoro minorile. Il traffico di droga è sempre esistito – dice -, ma dalla pandemia sta reclutando sempre di più giovani”.