“L’orso se n’è andato da parecchie ore e io aspetto, aspetto che la foschia si diradi. La steppa è rossa, le mani sono rosse, il volto tumefatto e dilaniato è irriconoscibile. Come ai tempi del mito, a regnare è l’indistinto, e io sono questa forma incerta dai lineamenti scomparsi sotto gli squarci aperti del viso, ricoperta di umori e di sangue: è una nascita, visto che con tutta evidenza non è una morte”. Quel 25 agosto 2015, una donna e un orso incrociano i loro sguardi sulle montagne della Kamčatka, nell’estremo oriente russo, e “le frontiere tra i mondi implodono”. Il corpo a corpo è violento. Sarebbe potuto risultare fatale per Nastassja Martin. La giovane antropologa francese (Grenoble, 1986), di madre italiana, ne esce sfigurata. L’orso le ha strappato una parte di viso. In quelle terre lontane e inospitali, la specialista di popolazioni artiche, già autrice di un saggio sui Gwich’in dell’Alaska, è andata a studiare la cosmologia animista degli eveni, un popolo di allevatori di renne della Siberia. Un lavoro sul campo, di lungo corso, come se fanno sempre meno. Ne avrebbe dovuto scrivere un saggio d’antropologia. Ne è nato Credere allo spirito selvaggio (uscito in Francia nel 2019 da Verticales, gruppo Gallimard, e in arrivo ora in Italia, il 23 giugno, da Bompiani, collana Overlook), un racconto intenso, poetico, a metà tra letteratura e antropologia, di un incontro terribile e decisivo, di una ricostruzione di un corpo e di uno spirito, il racconto di una metamorfosi, in cui l’autrice esplora le terre di confine, dove umano e non umano si incrociano.
Martin, quando oggi, più di cinque anni dopo, ripensa a quei fatti, come si sente?
Grazie alla ricerca e al mio lavoro, sono riuscita a dare senso a quello che mi è successo. Ho potuto rifare e disfare la mia storia, prendere della distanza. La nascita di mia figlia mi ha aiutato. Ma un incontro come quello non si può chiudere così, di punto in bianco. Da due anni pensavo di essermi messa tutto dietro le spalle, invece i sogni sono tornati. Dipende dai momenti, ma sto bene.
Riparlarne ora non l’aiuta…
Quello che avevo da dire dell’orso l’ho scritto nel libro. Sono cose intime che appartengono allo spazio del silenzio. Le ho scritte perché non avrei mai potute dirle. Parlo invece, e questo è il senso del mio libro, della mia ricerca interiore, come donna e antropologa. La scrittura letteraria mi ha permesso di liberarmi, di vivere il resto della mia vita.
Si può dire che il libro ha avuto un valore terapeutico?
Assolutamente sì.
Che passione la spinse, a 29 anni, a raggiungere l’estremo nord?
Quando ero piccola provavo un forte sentimento di inadeguatezza al mondo. Ho avuto la doppia fortuna di avere come genitori due ricercatori impegnati nel dibattito politico e di vivere in campagna. Da bambina parlavo con i cavalli. Deve esistere, mi dicevo all’epoca, un luogo nel mondo dove è possibile entrare in dialogo con la natura e dove gli esseri umani vivono in modo diverso dal nostro. Quando l’antropologia è entrata nella mia vita, a soli otto anni, scoprii che quei mondi esistevano. Decisi di andarci.
Il modo in cui descrive il suo scontro con l’orso mi ha sorpreso. Ci si aspetterebbero parole dure e invece usa un linguaggio quasi amoroso, parla di “bacio dell’orso”.
Per aver lavorato quindici anni nell’artico, di orsi ne ho incontrati tanti. I racconti dei gruppi animisti locali sono popolati di orsi e di incontri. Sono storie di ibridazione. Per gli eveni nessun incontro è accidentale. Esistono solo incontri preparati. Nel Kamčatka cominciai a sperimentare questi miti sul mio stesso corpo. Di notte ero abitata da esseri soprannaturali, facevo sogni quasi sensuali. Certo, sarebbe stato più facile descrivere l’incontro con l’orso come un attacco. Ma non è andata così. Per me quell’orso non era un estraneo.
Racconta poi l’orrore degli ospedali, in Russia, in Francia. Un percorso traumatico, dopo il quale, appena ha potuto, è ripartita per quelle terre lontane. Non era possibile ricostruirsi in Francia?
Qui tutti mi parlavano della violenza dell’incidente che avevo subito. Mi descrivevano l’orso come un selvaggio. Nessun’altra versione dei fatti era possibile. Quando cercavo di spiegare che per me era stato altro, che il mio percorso di vita, tappa dopo tappa, mi aveva portato a quell’incontro, mi sentivo incompresa. La scrittura è stata il mio solo rifugio. Molti passaggi del mio libro li ho scritti in ospedale. Era essenziale per me tornare i quei luoghi, fare quel tragitto per ricostruire il senso di ciò che mi era successo. Ma neanche laggiù trovai una risposta.
Gli eveni l’hanno chiamata “miedka”, metà donna-metà orso. Si è riconosciuta in questa definizione?
All’inizio sì. Poi mi sono accorta che anche loro, come gli altri, tentavano di strumentalizzarmi. Traducevano gli eventi solo alla luce della loro cosmologia. Mi volevano mettere nel loro mondo, davano per scontato che avrei vissuto lì. Ma per me c’era altro ancora. Capii che non mi potevo chiudere in nessuna categoria. Che bisognava accettare la parte di mistero. Che il mio posto non era né in un mondo né nell’altro, che stavo tra i due mondi.
Questo incontro l’ha cambiata in profondità. È cambiato anche il suo modo di lavorare?
Il mio metodo di inchiesta e di lavorare sul campo no. È cambiato invece il mio rapporto con la scrittura. Ho sempre tenuto dei quaderni dove annotare i miei pensieri più onirici e poetici. Ma facevano parte del mio mondo segreto, non li consideravo materiale pubblicabile. L’incontro con l’orso ha fatto esplodere le barriere tra mondo interiore e ricerca. Ora mi pongo molte domande su come poter conciliare la scrittura personale e quella dell’antropologa.
È ritornata nel Kamčatka da allora?
Sì, diverse volte, l’ultima l’anno scorso, anche con mia figlia. Ma ho deciso che quest’anno non andrò. Sto completando il volume che avrei dovuto scrivere all’epoca. Dopo l’incontro ero paralizzata. Ora ho una storia che si deve chiudere.
Come vivono i popoli dell’estremo nord?
Si potrebbe immaginare che quelle terre lontane siano risparmiate dalla modernità, ma non è così. Le popolazioni locali sono le prime a subire gli effetti del riscaldamento climatico, che lì sono molto violenti, e devono adattarsi al cambiamento del ritmo delle stagioni. Subiscono anche l’intervento degli Occidentali che sfruttano i loro territori, ricchi di risorse, petrolio, legna, gas, oro. Sono costretti a spostarsi, a battersi per la propria terra. Neanche la creazione dei parchi nazionali, che fa di queste regioni dei santuari, si adegua al loro modo di vita, basato sulla caccia e la pesca. Questi popoli sono come presi in trappola. È per questo che ritengo importante documentare il modo in cui si adattano a un mondo in piena metamorfosi e come rispondono ai problemi legati al clima. Un giorno anche noi ci ritroveremo a viverli.
Il suo libro non è solo una testimonianza, è un libro militante…
Vuole essere infatti un doppio manifesto. Attraverso la mia esperienza, vorrei dire che esiste un altro modo di vivere in questo mondo, in comunione, e non in opposizione, con la natura, così come esiste un altro modo di fare ricerca.