Siamo a un punto di svolta? A qualche settimana di intervallo, due pilastri della presenza francese nel continente africano hanno cominciato a vacillare. A fine aprile, la Francia ha sospeso la cooperazione militare e gli aiuti al budget alla Repubblica Centrafricana, paese i cui dirigenti sono stati a lungo messi al potere o allontanati in funzione degli interessi di Parigi. Poi, il 10 giugno scorso, Emmanuel Macron ha annunciato “la fine dell’operazione Barkhane come missione esterna” e la sua trasformazione in “operazione di supporto, sostegno e cooperazione con gli eserciti dei paesi della regione che lo desiderano”.
Le modalità per il ritiro dei 5.100 soldati francesi mobilitati nella regione del Sahel attraverso l’operazione Barkhane, la più importante a livello militare all’estero della Francia dopo la guerra d’Algeria, dovrebbero essere chiarite entro fine mese. I due annunci, sulla Repubblica Centrafricana e sul Sahel, non sono stati realmente una sorpresa. Dalla fine dell’operazione Sangaris nella Repubblica Centrafricana, nell’ottobre 2016, Parigi non ha mai mostrato interesse a mantenere una presenza forte in questo paese segnato dalle violenze (l’ultima coalizione formata da gruppi armati, la Coalizione dei patrioti per il cambiamento-Cpc, ha preso le armi nel dicembre 2020 per rovesciare il presidente Faustin-Archange Touadéra). A sua volta, il graduale ridimensionamento dell’operazione Barkhane era stato più volte annunciato e regolarmente rinviato. I due gesti forti, a distanza di poco tempo, confermano la nuovo politica del’Eliseo in Africa. Un “Afghanistan alla francese”: così è stata spesso definita l’operazione Barkhane, lanciata nel 2014 per lottare contro i gruppi jihadisti nel Sahel. Già nel dicembre 2020, il capo di stato maggiore delle forze armate, François Lecointre, parlava di parziale ritiro delle truppe francesi. Ma bisognava trovare un modo per farlo evitando di dare l’impressione di aver fallito: i gruppi armati jihadisti sono più numerosi e potenti oggi che nel 2014 e i civili, nigeriani e maliani, sono vittime più che mai di violenze.
Le autorità maliane hanno inconsapevolmente offerto a Parigi una buona opportunità per annunciare l’atteso ritiro: con metodi poco costituzionali, il colonnello Assimi Goïta ha preso il potere il 24 maggio scorso (diventando presidente di transizione), nove mesi dopo il precedente colpo di Stato contro il presidente Ibrahim Boubakar Keïta. Emmanuel Macron ha afferrato la palla al balzo: “Non resterò al fianco di un paese che non ha legittimità democratica né di transizione”, ha detto il presidente al Journal du dimanche. La fine della cooperazione militare bilaterale con la Repubblica Centrafricana, anche se meno spettacolare (solo una manciata di operatori era ancora distaccata presso il ministero della Difesa centrafricano), ha seguito la stessa logica: la volontà di disimpegnarsi nelle “guerre impossibili da vincere”. La Repubblica Centrafricana non è il Sahel. I gruppi armati che operano qui non sono jihadisti e hanno metodi diversi. Ma anche qui le truppe francesi si sono trovate a combattere una guerra asimmetrica, impossibile da vincere, contro avversari numerosi e frammentati, che possono contare su un certo appoggio popolare.
Per giustificare il progressivo ritiro di Barkhane, Macron ha detto che “le operazioni esterne, che coinvolgono più di cinquemila uomini da diversi anni, non sono più adatte alla realtà degli scontri”. Come nel Sahel, la Francia aveva da guadagnare poco militarmente nella Repubblica Centrafricana, ma molto da perdere in termini di immagine. Negli anni era salito un certo risentimento nei confronti di soldati giudicati impotenti e loro stessi a volte colpevoli di violenze. La presa di distanza da Bangui conferma un’altra tendenza di fondo: il graduale disimpegno della diplomazia francese dall’Africa centrale, con la sola eccezione del Ruanda. “Si conferma, malgrado le visite a Bangui del novembre e dicembre 2018 dei ministri francesi degli Esteri e della Difesa, una generale impressione di ‘discreta indifferenza’ strategica nei confronti dell’Africa Centrale”, notava già nel 2019 lo storico e antropologo François Gaulme in una nota del’Ifri, l’Istituto francese per le relazioni internazionali. Il ritiro graduale dell’operazione Barkhane passerà per la chiusura delle basi militari francesi nel nord del Mali e il ridispiegamento delle truppe rimanenti in Niger e nel Ciad.
Se questo piano si conferma, si confermerà anche una terza opzione adottata dalla diplomazia francese: riaffermare la propria cooperazione politica e militare con capi di Stato e di governo ritenuti sufficientemente franco-compatibili e, se necessario, condannare pubblicamente gli altri. Maliani e centrafricani ne hanno pagato le conseguenze. Al di là delle ragioni militari che hanno determinato la sospensione della cooperazione con questi due paesi, esistono anche ragioni politiche, che si possono riassumere con due espressioni: “sentimento anti-francese” e “influenza russa”.Il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra e il suo entourage sono stati pubblicamente accusati da Emmanuel Macron di aver alimentato un sentimento anti-francese nella Repubblica centrafricana e aver permesso la “presenza di mercenari predatori russi ai vertici dello stato”. In Mali, e più in generale nel Sahel, questo “sentimento anti-francese” si manifesta nella forma di una critica all’imperialismo e al neocolonialismo incarnato dalla presenza militare francese. A Bamako o a Ouagadougou, in Burkina Faso, centinaia, talvolta migliaia di manifestanti si radunano regolarmente dal 2019 al grido di “Abbasso la Francia” o “Stop Barkhane”. I capi di stato di questi paesi sono accusati da Parigi di non difendere il partner francese. Invece in Ciad sono state di recente bruciate alcune bandiere francesi, ma le proteste non sono importanti come nell’Africa occidentale. Le autorità ciadiane inoltre sono considerate “franco-compatibili”: a differenza delle nuove autorità maliane, non sono sospettate di voler aprire il dialogo con i gruppi jihadisti, né di aprire la porta a leader religiosi sospettati di professare un “Islam radicale”.
Questa convergenza di vedute con N’Djamena, così come la presenza chiave dell’esercito ciadiano nelle operazioni congiunte contro i gruppi jihadisti nel Sahel, spiega in parte perché la Francia ha avallato il colpo di Stato di fine aprile del figlio del defunto presidente Idriss Déby. Il 10 giugno, Macron ha ribadito che il dialogo con i jihadisti rappresenta per lui una “linea rossa”: “Come spiegare ai genitori di un soldato francese che loro figlio è caduto in battaglia al fianco di un esercito che negozia con gli assalitori. Questa ambiguità esiste, e fintanto che non è risolta, non posso riprendere le operazioni congiunte e non lo farò”. Si conferma in questo modo la tendenza della politica africana di Macron, destinata essenzialmente a un pubblico francese. Secondo il ricercatore Yvan Guichaoua, della Brussel School of International Studies, nella politica africana di Macron esiste “una sorta di recupero delle questioni di politica interna e politica estera” dovuto alla “nostra incapacità di pensare che uno Stato possa essere costituito in modo diverso dal nostro”. Il riferimento del presidente francese ai “genitori di un soldato francese” caduto sul campo di battaglia, ci ricorda anche che Macron, malgrado prenda decisioni che non sempre piacciono allo stato maggiore delle forze armate, si preoccupa di non urtare la sensibilità dei membri di alto livello dell’esercito, con il quale non sempre ha mantenuto buoni rapporti (e che lo ha mostrato anche di recente attraverso dei manifesti febbrili sulla presunta “disgregazione” della Francia). Ciò spiega di certo anche perché, nell’attesa questione delle scuse ai sopravvissuti del genocidio dei Tutsi in Ruanda, Macron è rimasto molto cauto quando si è trattato di parlare del ruolo che aveva svolto l’esercito francese.
Traduzione di Luana De Micco