Tutelare le foreste per accumulare crediti sulle emissioni di CO2 e compensare il proprio inquinamento. Ma che succede se questo sistema, denominato Redd+, ha delle falle? Greenpeace, in un rapporto che abbiamo potuto leggere in anteprima e che sarà presentato oggi, analizza con Kelvin Mulungu, già ricercatore del dipartimento di agricoltura e risorse economiche dell’Università del Colorado, uno dei progetti in cui si è impegnata Eni in Zambia per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050. Secondo lo studio The Luangwa Community Forests Project (Lcfp) la quantificazione di “foresta da salvare” ha basi scorrette: è sovrastimata la densità della popolazione, sovrastimato il rischio di deforestazione, sottostimati gli incendi. A fronte di un impegno dell’azienda minimo rispetto al suo fatturato.
I progetti REDD+ (Reduce Deforestation and Forest Degradation) sono riconosciuti dalla convenzione delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici come importanti per la sostenibilità ambientale. In pratica, permettono di acquistare certificati su tonnellate di emissioni risparmiate grazie alla protezione delle foreste. Si compra, di fatto, il diritto di continuare a emettere CO2. Greenpeace Italia ha però fatto analizzare il progetto zambiano, il maggiore al mondo sia per numero di beneficiari che per estensione, a cui partecipa anche Eni. Ha durata trentennale (2015-2045) e vede alla guida BioCarbon Partners (Bcp), una compagnia africana, e Verra, ovvero l’ente di certificazione internazionale che si occupa di verificare la correttezza dei progetti ma che, secondo gli ambientalisti, ha qualche criticità: “Si potrebbe pensare che un ente di verifica esterno sia super partes, se non fosse che ai piani alti di Verra sono seduti anche alcuni manager dei principali attori mondiali del comparto del petrolio e del gas, come Shell e Bp”. Il progetto, secondo le stime, permetterebbe di non immettere nell’atmosfera una media di 2,7 milioni di tonnellate di CO2 l’anno.
A novembre 2020, Eni ha acquistato crediti di carbonio per compensare emissioni per 1,5 milioni di tonnellate di CO2, il 3,75% del suo obiettivo per il 2050 (40 milioni di tonnellate). Ma c’è, spiega la Ong, “un netto divario tra le promesse di riduzione di emissioni e la realtà”. Per calcolare il tasso ipotetico di deforestazione e le emissioni che tale deforestazione avrebbe causato, infatti, si traccia uno “scenario di base”, un’area il più possibile simile a quella utilizzata dal progetto. Basta però sbagliare i calcoli per avere scenari più o meno favorevoli.
Stando ai documenti del Lcfp, ad esempio, la densità di popolazione è la più importante causa di deforestazione: più cresce, più alberi per l’agricoltura vengono tagliati. “Ignorando per un attimo le altre possibili cause di deforestazione (dall’espansione industriale all’urbanizzazione) – si legge – è evidente l’elevata differenza di densità tra l’area del progetto (2,75 abitanti per chilometro quadrato) e quella di riferimento (29,6)”. In pratica, secondo il rapporto, i calcoli proiettano sul 2045 la stessa evoluzione del periodo 1985-2015 e non tengono conto delle differenze e del fatto che le attività antropiche principali (così come di contenimento della deforestazione) avverranno nel prossimo decennio.
Viene così sovrastimato, secondo il rapporto, anche il tasso di deforestazione, più alto di quanto riportano tutti gli studi di settore in Zambia. Il progetto parla del 2,5%, mentre uno studio Fao del 2020 segnala un valore dello 0,42%. Appaiono invece sottostimati i rischi di incendio, vera e propria minaccia per i Redd+ a causa del carbonio che rilascerebbero nell’atmosfera. “Il rischio ignora l’incremento degli incendi nelle foreste di miombo (tipiche dell’area) causato da siccità e cambiamento climatico”. Si stima che gli incendi contribuiscano fino al 12,6% alle emissioni di CO2 in Africa meridionale e che ogni anno in Zambia circa il 25% della copertura totale del suolo sia distrutta da incendi. “Per questi motivi, risulta poco convincente il rischio appena al di sopra del minimo”. Inoltre, si pone la frequenza degli incendi a uno ogni 10-25 anni. “Diversi studi condotti sulla stessa tipologia di foresta mostrano incendi almeno una volta ogni anno e mezzo”. Uno studio proprio nella Provincia orientale dello Zambia riporta che “il 28% dell’area è bruciato ogni 1,6 anni, il 37% ogni 3,5 anni, il 14% ogni 7 anni e il 21% dell’area è bruciato ogni 14 anni”.
Lo studio critica poi il calcolo della capacità di immagazzinamento di carbonio delle foreste. “Se si prende in considerazione una media degli studi su foreste simili a quelle del Lcfp – si legge – il dato è di circa 108 tonnellate di CO2 per ettaro, la metà di quanto indicato dal partner di Eni (224). Questo significherebbe che il progetto finanziato da Eni starebbe considerando il doppio dei crediti di carbonio rispetto a quanto indicato dalla letteratura scientifica. Non sarebbe il primo caso: Virgin Atlantic, compagnia aerea britannica, nel 2018 ha preso le distanze da un progetto Redd+ in Cambogia a seguito di un report che ne mostrava i problemi.