L'intervista

La linguista Dragotto: “Gli stereotipi passano attraverso il linguaggio, dai primi giorni di vita”

Docente a Tor Vergata, con la collega Cavagnoli ha appena pubblicato il saggio “Sessismo”: “Bisogna introdurre modi diversi di stare al mondo: quanto più ho la possibilità di mettere alla prova la mia capacità interpretativa, tanto più il mio recinto di riferimento sarà ampio. E alle donne occorre dimostrare che non esiste la predestinazione: la vita, come la conoscenza, si costruisce”

13 Luglio 2021

Un padre e un figlio sono vittime di un incidente d’auto in cui il padre muore. Il figlio viene portato in ospedale in gravi condizioni, sta per finire sotto i ferri quando il chirurgo esclama: “Non posso operarlo, è mio figlio!”. Questo indovinello è comparso nel 2014 in un articolo della Boston University a firma del giornalista Rich Barlow e risulta ancora di ardua soluzione per molti. “Se avete indovinato che il chirurgo è il secondo padre, gay, del ragazzo, complimenti per l’illuminazione – scriveva Barlow –. Ma avevate anche intuito che il chirurgo potesse essere la madre del ragazzo? Se no, fate parte di una sorprendente maggioranza”.

Proponete oggi l’indovinello ai vostri amici e capirete quanto quella maggioranza sia ancora tale. Soprattutto perché, in italiano, il maschile generico (“il chirurgo”) è frutto di una cultura che ha visto le donne relegate per troppo tempo al ruolo, al massimo, di infermiere. “Un linguaggio neutrale non esiste – ci spiega Francesca Dragotto, che insegna Linguistica generale e Sociolinguistica all’Università romana di Tor Vergata, dove dirige anche il Centro di ricerca multidisciplinare “Grammatica e sessismo” –, perché il linguaggio innesta comportamenti socio-culturali in componenti biologiche. Ogni lingua è un mix di elementi di natura biologica, culturale, sociale, riflette le strutture sociali dei gruppi che se ne servono. Per questo, nessuna lingua è immune da pregiudizi e stereotipi”.

Dragotto, insieme con la collega Stefania Cavagnoli, docente di Linguistica applicata e Glottodidattica, ha appena dato alle stampe per Mondadori Università l’interessante saggio “Sessismo”.

Professoressa Dragotto, lei si è occupata, in particolare, del ruolo della lingua nella costruzione della conoscenza. Ritiene, proprio perché il linguaggio non è neutro, che al neonato – l’infans – venga trasferita la nostra visione del mondo?

Trasferita no, perché i processi di costruzione della conoscenza sono attivi e non passivi. Nascere con la facoltà di linguaggio integra, quindi senza problemi neuropsicologici, è come avere una scatola di Lego: il bambino apprende dal gruppo intorno a lui a fare cose con quei mattoncini, copia il modo di giocare poiché si deve inserire nel gruppo per soddisfare i propri bisogni. Ma la sua “copia” è originale, passa attraverso l’interpretazione. Non parlo solo di linguaggio verbale: le prime stimolazioni coinvolgono la qualità della voce, la sua altezza, il timbro, tutti gli elementi che spiccano nel contesto. Sin dalle prime ore dopo la nascita, dovendoci mettere in relazione con l’ambiente intorno, ci attacchiamo alle isole sonore, visive, gestuali e, poiché non siamo in grado di riprodurle immediatamente, attiviamo il processo di interpretazione. Pensi a come cambia il pianto del neonato nel giro di qualche giorno, a come impara a modularlo a seconda delle sue esigenze. La natura sensoriale è il presupposto fondamentale per entrare a far parte del gioco, ma è pur sempre un’interpretazione.

Va bene, però comunque l’infans produce significati basandosi su ciò che vede e sente. Per cui la sua interpretazione del mondo si incardinerà su quella del gruppo in cui vive…

Nel passaggio dall’infans – colui che non è in grado di articolare – al loquens, il “fuori” è già diventato “dentro”. Il bambino riproduce aria articolata associandole un significato, che ha estrapolato dal contesto in cui ha udito usare quelle espressioni. Quando inizia a parlare, ognuno di noi si porta già dentro il modo di stare al mondo del proprio gruppo sociale di riferimento.

Potrei obiettare che un vocabolario è solo un vocabolario, un insieme di parole che compone il linguaggio di ciascuno.

Il nostro dizionario è poli-sensoriale, si ricostruisce ogni volta che usiamo le parole perché non ci limitiamo alle definizioni, creando un recinto, ma leghiamo a ogni parola l’esperienza tattile, verbale, olfattiva, gustativa, uditiva. È come se ogni volta andassimo a modificare un file e ne salvassimo la singola modifica.

Quindi non c’è salvezza? Il bambino interpreta ma comunque fa propri i pregiudizi del suo gruppo di riferimento. Anche, ovviamente, quelli sessisti.

È per questo che bisogna introdurre modi diversi di stare al mondo: quanto più ho la possibilità di mettere alla prova la mia capacità interpretativa, tanto più il mio recinto di riferimento sarà ampio. Ma questo cozza con il modo in cui articoliamo la società, nella quale è presente un ordine di genere dominante rispetto agli altri. La narrazione unica influisce sul modo di vivere all’interno di un gruppo. L’infans avrà non uno tra vari modelli interpretativi, ma “IL” modello interpretativo. E tutto quello che non è “IL” sarà stigmatizzato, combattuto, rimosso. Addirittura in nome di una presunta natura.

A proposito di articolo determinativo, torniamo a IL chirurgo. Ci sono molte donne in Italia che rivendicano il maschile. Simonetta Matone, per esempio, candidata per il centrodestra alle amministrative di Roma, nel caso in cui vincesse la sua coalizione diventerebbe, orgogliosamente, “vicesindaco”.

Ci sono termini attraverso i quali si svelano le dinamiche di potere all’interno della società. E molte persone ritengono ancora che ci siano problemi più urgenti che l’uso del maschile o del femminile. All’inizio del mio percorso accademico, mi sono più volte sentita dire: “Se questa cosa l’avesse scritta un uomo sarebbe stata geniale…”. E così ho iniziato a usare il “dott.” al posto di “dott.sa”. Ero consapevole che il carico di natura femminile mi avrebbe comportato dei fastidi o anche solo delle perdite di tempo, così mi sono adeguata. Poi ho capito che non si tratta solo di un fatto grammaticale, la lingua riflette le gerarchie sociali, e ho iniziato a farne un caso di studio. Ho cercato un risvolto nelle neuroscienze cognitive, per far capire come sia necessario costruire diversamente le proprie conoscenze se si vuole sfuggire agli stereotipi.

Le ragazze di oggi si sentono libere, però.

Molte studentesse mi dicono: “Questi discorsi andavano bene per mia madre”, ignorando che i diritti non sono acquisiti. Il potere è proprio questo: non ti fa accorgere di replicare schemi sociali.

Quindi, che si fa? Si impone dall’alto l’uso del femminile?

Affatto. Bisogna mostrare il tipo di meccanismo che c’è dietro la parola. Anche agli uomini. Coloro che si credono moderni e non maschilisti perché “aiutano” le proprie compagne in casa, dovrebbero interrogarsi sull’origine del verbo “aiutare”, che tradisce già una visione del mondo.

E le donne cosa possono fare?

Farsi formiche, vista la loro capacità di resistenza, e cambiare le cose dal di dentro. Nessuna vuole insegnare alle altre come si sta al mondo, vogliamo far vedere che non esiste la predestinazione: la vita, come la conoscenza, si costruisce.

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