Quando pensiamo all’inquinamento marino, raramente ci viene in mente che le nostre scelte alimentari possano esserne una concausa. Molti di noi hanno imparato a sostituire bottiglie, bicchieri e stoviglie monouso con alternative riutilizzabili, ma pochi sono consapevoli del fatto che il grande problema dei nostri oceani non è tanto il piatto, quanto quello che contiene.
Eppure, i dati ci dicono che tra i principali nemici degli ecosistemi marini di tutto il mondo c’è proprio la pesca industriale, non solo per l’enorme impatto che ha su mammiferi marini e squali – le operazioni di pesca uccidono ogni anno circa 300 mila delfini, balene e focene e fino a 30 mila squali ogni ora – ma anche per i suoi “effetti collaterali”, come l’enorme inquinamento che questo settore produce. I materiali polimerici di cui sono per lo più costituite le reti, permanendo spesso a lungo nell’ambiente marino, possono ridursi in frammenti sempre più piccoli, contribuendo all’aumento della presenza di microplastiche nei mari e negli oceani.
Un rapporto realizzato nel 2009 da FAO e Unep ha dimostrato come ogni anno in tutto il mondo vengano abbandonate o perse dalle 640 mila alle 800 mila tonnellate di attrezzi da pesca (reti, cordame, trappole, galleggianti, piombi, calze per mitilicoltura). Il Great Pacific Garbage Patch, più comunemente noto come “isola di plastica”, è costituito per il 46% da attrezzature e reti da pesca e anche nel nostro Mediterraneo, recenti ricerche condotte in diverse località, indicano che gli attrezzi da pesca possono rappresentare la maggior parte dei rifiuti marini registrati, con cifre che raggiungono anche l’89%.
I danni arrecati all’ambiente marino non si limitano però all’inquinamento: una volta abbandonate, le attrezzature da pesca diventano vere e proprie trappole che occupano i fondali o che, trascinate dalle correnti, continuano ad imprigionare e a pescare mettendo in pericolo la fauna e la flora marina, con il risultato che ogni anno circa 100 mila mammiferi marini e un milione di uccelli marini muoiono a causa dell’intrappolamento in reti da pesca fantasma o ingestione dei relativi frammenti.
Il problema riguarda naturalmente anche le nostre acque: a causa del bycatch (o pesca accidentale) solo nelle acque italiane in un anno si verificano più di 52 mila eventi di cattura di tartarughe Caretta caretta, e probabilmente oltre 10 mila morti. La pesca a strascico e la pesca a reti fisse sono le principali cause di cattura accidentale di tartarughe marine nel Mediterraneo. Le stime sono sconfortanti: il 18% delle tartarughe marine catturate dalle reti a strascico muore direttamente, un numero altrettanto alto muore invece successivamente per annegamento, disturbi metabolici o decompressione da rilascio.
Grazie al supporto di DHL Express Italy e della Federazione Italiana Pallavolo e al patrocinio di del Comune di San Vito Lo Capo, poche settimane fa la Divisione Subacquea di Marevivo si è immersa nelle acque dell’Isola delle Femmine e di San Vito Lo Capo liberandole da due reti fantasma, tra cui una rete spadara derivante lunga oltre 2.500 metri: le spadare (anche dette “muri della morte”) sono dispositivi estremamente pericolosi per la fauna marina e per questo, grazie anche all’azione di Marevivo, illegali in Italia dal 2002, ma che nonostante ciò continuano a essere utilizzate minacciando gli ecosistemi marini.
La Divisione Subacquea di Marevivo ha cominciato ad occuparsi del recupero delle reti fantasma nel 2003, e da allora ha liberato i mari italiani da oltre 9 mila metri di reti abbandonate, ma questi ultimi recuperi, ha spiegato Massimiliano Falleri, responsabile della Divisione, si sono rivelati particolarmente impegnativi sia per le dimensioni delle reti recuperate sia per la profondità a cui i subacquei hanno dovuto operare. La rete di San Vito lo Capo, inoltre, copriva una bellissima parete intrappolando numerose forme di vita, e questo ha portato i biologi presenti a eseguire un’accurata valutazione degli organismi concrezionati sulla rete: le specie sessili (fisse alla rete) protette e di grande valore ecologico, sono state liberate dalle maglie, rimosse dal substrato antropico e riposizionate sul fondale roccioso mediante una tecnica di trapianto con l’utilizzo di mastice subacqueo. In particolare, le gorgonie bianche (Eunicella singularis) che avevano iniziato a colonizzare la rete sono state liberate. Nella fase successiva ci si è occupati soprattutto delle specie rimaste intrappolate nella rete come ricci, stelle marine, crostacei, pesci e altri organismi che sono stati prontamente riportati in acqua. Questo episodio è solo la punta dell’iceberg e deve farci riflettere sull’impatto dei nostri comportamenti quotidiani (incluse le scelte alimentari) sulla salute dei nostri mari e del nostro Pianeta. Amare il mare significa anche questo.