Non per spirito di bandiera (quella del Fatto) ma trovo che il nostro titolo “La Brexit azzurra” colga bene il senso, europeo, della vittoria azzurra che batte, e non soltanto ai rigori, il senso di superiorità e di presuntuosa autosufficienza dei tre leoni in campo bianco.
L’esultanza della stampa spagnola, tedesca, scandinava, e una volta tanto perfino dei nostri criticoni francesi (“Invincibles”: paginone dell’Équipe), sommato al tripudio storicamente motivato di scozzesi, gallesi e irlandesi, dimostra che l’Italia è da domenica sera molto più simpatica al resto del continente perché è l’Inghilterra che sta sulle scatole a tutti.
Una volta esaurita la sacrosanta sbornia per il dolce risultato inatteso, faremo bene a non caricare di significati eccessivi un successo sportivo che non è né “il paradigma di un Rinascimento”, e neppure “la celebrazione patriottica di un ritrovato spirito nazionale” (abbiamo letto anche questo). Poiché da che mondo è mondo, il tifo più esaltante, genuino e diabolico consiste nel tifare contro qualcuno mentre sostenere i nostri è come voler bene alla mamma.
In questo senso la Nazionale di Southgate (uno dei pochi, oltremanica, a comportarsi con misura e stile) è riuscita a concentrare su di sé livelli straordinari di antipatia grazie all’esercizio del più deleterio sciovinismo, mescolato alla boria declamatoria del suo invadente primo ministro, e soprattutto ai festeggiamenti troppo anticipati (micidiale cocktail iettatorio che chi è pratico di sconfitte conosce bene). È molto probabile infatti che sui rigori falliti dagli inglesi (che non sono affatto una lotteria bensì l’esaltazione più sadica del gioco del calcio) abbia pesato come una pietrosa montagna di aspettative il famoso urlo di Wembley che ha finito per frastornare i più giovani.
Insomma, quel niente affatto disonorevole secondo posto, che Boris Johnson ha trasformato in una fiasco planetario, e che la Ursula di Bruxelles gli ha soavemente sbattuto sul muso, rappresenta una dura lezione per la propaganda Brexit. E se anche dalle vittorie si può imparare qualcosa, c’è una lezioncina per l’Italia della politica. Visto che tutti ci ripetono che siamo diventati campioni grazie allo spirito di squadra e senza bisogno dell’uomo solo al comando.