Suggerisco di tenere d’occhio cosa succederà a Voghera dopo che il suo assessore alla sicurezza, Massimo Adriatici, ha spedito all’altro mondo con un colpo di pistola il molestatore della quiete pubblica Youns El Boussettaoui, per prevedere l’Italia di destra che ci aspetta.
Quanto può incarognirsi, nell’indifferenza, una paciosa cittadina lombarda nostalgica del boom economico, porta d’accesso alle colline dell’Oltrepò pavese? Nella canicola pomeridiana di sabato scorso, ad accogliere in piazza Meardi, il luogo del delitto, alcune centinaia di manifestanti, quasi tutti immigrati stranieri chiamati alla protesta dalla combattiva sorella di Youns, c’erano solo una fila di saracinesche abbassate e i cordoni di polizia in tenuta antisommossa. La sindaca Paola Garlaschelli, dopo aver invitato i negozianti alla serrata, ha diffuso un videomessaggio che merita di essere riascoltato parola per parola. Ribadisce la sua stima personale all’assessore-giustiziere, lamenta la “strumentalizzazione mediatica” dell’episodio, non si lascia sfuggire un cenno di cordoglio per la vittima né tantomeno si occupa della sorte di due bambini rimasti orfani. Suppongo gliene sarebbero derivate critiche da parte dei benpensanti che da sempre mal sopportano il disturbo recato da un malato di mente, per giunta marocchino. È storia antica l’ostilità diffusa nei confronti dello “scemo del villaggio”, rinfocolata dalla propaganda politica sull’invasione straniera.
Vogliamo o non vogliamo restare padroni a casa nostra? E allora potranno anche essere considerate inopportune le minacce sfuggite alla collega leghista di Adriatici, Francesca Miracca, assessore al Commercio, il giorno prima della manifestazione di solidarietà per Youns: “Domani spariamo davvero. Assoldo i miei operai e scendiamo noi, in piazza”. Figuriamoci se la sindaca ne pretenderà le dimissioni: non ha espresso forse un comune sentire? Basta e avanza l’autosospensione di Adriatici, la cui pratica armata di giustizia fai da te era pur sempre considerata un fiore all’occhiello della giunta cittadina.
Peccato che i vogheresi, impauriti da quegli estranei venuti a gridare la loro richiesta di giustizia, non siano venuti a riconoscerli. Ne avrebbero incontrati parecchi che lavorano alle loro dipendenze e fanno marciare l’economia di una provincia tranquilla. La sorella di Youns, man mano che presentava al microfono i parenti del morto ammazzato, a cominciare dal papà e dalla mamma, elencava da quanti anni vivono qui intorno. Molti di loro sono già diventati cittadini italiani, benché abituati a sentirsi di serie B, mutilati anche nell’aspettativa di giustizia.
Fin troppo facile è constatare a quale modello si rifacciano i leghisti vogheresi: lo ha impersonato Matteo Salvini nei quindici mesi in cui rivestiva la funzione di ministro degli Interni. Lui stesso ne ha rivendicato l’azione invocando a sproposito il principio della legittima difesa, condito dalla tipica dose di sarcasmo: “Se fosse stato eseguito l’ordine di espulsione, sarebbe ancora vivo”. Un riflesso automatico tipicamente razzista.
Questa involuzione della coscienza collettiva, giunta a vietarsi espressioni di umana pietà da parte dei rappresentanti delle istituzioni, merita di essere studiata. Magari riprendendo in mano le preziose memorie racchiuse nel libro di Vittorio Emiliani, Vitelloni e giacobini. Voghera-Milano fra dopoguerra e boom (Donzelli), che proprio qui esordì con Alberto Arbasino e Peppino Turani nella sua carriera giornalistica, dando vita al settimanale Il Cittadino, seguendo le orme del direttore-partigiano Italo Pietra.
Quei “vitelloni” esprimevano il fervore culturale che nobilitava una terra di provincia protesa nella modernità, dove il riformismo socialista già nel 1956 aveva dato vita a una giunta di sinistra con l’appoggio esterno dei comunisti. Potrà infrangersi la cappa di cinismo in cui oggi pare imprigionata la società vogherese, o invece resterà aggrappata all’ostentazione di cattiveria dei suoi attuali amministratori? È uno dei dilemmi della futura Italia di destra.