Non è così impossibile che la riforma della Giustizia venga approvata così com’è: le peggio cose le hanno fatte i governi tecnici. Basta pensare alla riforma dell’articolo 81 della Costituzione, approvata nell’ubriacatura del post Berlusconi, regnante un altro migliore, Mario Monti. Ce lo chiedeva l’Europa anche allora (ma almeno allora era vero). Proviamo però ad astrarci dalle tentazioni infantili di un dibattito pubblico gestito per lo più da analfabeti orecchianti, che basano i loro giudizi non sulle idee, ma in ragione della provenienza di tali idee.
Noi ci permettiamo di saper leggere e far di conto da qualche tempo e dunque di capire ciò che ci viene sventolato sotto il naso, nonostante l’odore di santità. Come i nostri lettori sanno bene, due sono i punti inaccettabili di questa riforma. Il più dibattuto riguarda l’improcedibilità che scatterebbe in automatico due (salvo alcune eccezioni) anni dopo l’inizio del procedimento di secondo grado. Come ha rilevato la commissione ministeriale e come ha ricordato sul Fatto Piercamillo Davigo, l’arretrato delle Corti è pari al doppio dei processi definiti ogni anno, e quindi le Corti impiegherebbero due anni solo a smaltire l’arretrato. Mettiamoci poi i nuovi processi di secondo grado, che finiranno in coda ai pendenti: tutti, o quasi, in fumo.
L’altra questione riguarda il nodo delicatissimo dei rapporti tra i poteri. La legge delega prevede che “gli uffici del pubblico ministero nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili”. Si realizza così, senza sporcarsi le mani, il sogno proibito della separazione delle carriere e cioè l’assoggettamento della magistratura inquirente al potere politico. Il legislatore già prevede una gerarchia della gravità disponendo per delitti e contravvenzioni pene più o meno gravi.
Qui però c’è un passaggio ulteriore: già immaginiamo emergenze securitarie in cui reati come scippi, furti e rapine diventeranno allarmanti criticità da perseguire a scapito di meno visibili reati (che però producono danni, anche economici, incalcolabili). Una soluzione l’ha individuata la ministra stessa durante la conferenza stampa con il presidente Draghi, quando ha parlato di interventi mirati nei distretti di Corte d’appello dove gli arretrati sono più gravosi: il problema della cronica lunghezza dei processi si risolve in prima battuta con gli investimenti, dotando gli uffici giudiziari di più personale, più risorse, più tecnologia.
Tornando alla riforma com’è, è già stato ampiamente chiarito come e perché queste norme sono contro la Costituzione. E sì, è stupefacente che le proposte arrivino da una commissione guidata da un presidente emerito della Consulta e che siano state recepite da una ministra a sua volta ex presidente della Corte. C’è un ulteriore possibile cortocircuito, di non scarso rilievo istituzionale. E riguarda l’ipotesi tutt’altro che remota di un’ascesa al Colle di Marta Cartabia, che sarebbe in teoria da preferire a un irrituale secondo mandato à la carte dell’attuale inquilino. In teoria, ma non in pratica. Se tutto procederà come pare probabile, la riforma che porta il nome della ministra diventerà legge. Prima o poi la Consulta dovrà giudicarne la conformità alla Costituzione ed è più che possibile che certifichi l’incostituzionalità di alcune parti, causando un imbarazzo istituzionale inaudito, perfino peggiore dell’umiliazione che il Parlamento ha dovuto subire con la doppia bocciatura di due leggi elettorali una in fila all’altra.