Non millanto competenze che non ho in tema di giustizia. Tuttavia mi colpiscono la “sacralizzazione” della cosiddetta riforma (?) Cartabia e la esorbitante pressione politico-comunicativa mirata a un suo varo repentino e senza distinguo. Una pressione suggellata con l’apposizione della fiducia da parte del governo. Con opinionisti più realisti del re. Sino a voci francamente settarie e stravaganti, tipo editorialisti del Corriere che assimilano chi eccepisce ai no vax, che rappresentano la nostra come la Repubblica delle procure, che dipingono Conte come un “falco” in preda a “pulsioni revansciste”.
Per parte mia, in via preliminare, vorrei concedere le buone intenzioni a entrambi gli opposti fronti, tutti protesi a una “giustizia giusta”, gli uni preoccupati di non propiziare l’impunità da denegata giustizia, gli altri solleciti della ragionevole durata dei processi. Un bilanciamento oggettivamente difficile. Di sicuro, è fuorviante e tendenzioso evocare il fantasma dei “processi senza fine” o degli “imputati a vita”. Formule propagandiste. Da profano, tuttavia vorrei porre sette quesiti.
Primo: se, in zona Cesarini, ci si sta ripensando ciò significa che nel testo era effettivamente troppo limitato il perimetro delle eccezioni alla non procedibilità in ragione della gravità dei reati (di mafia, per esempio).
Secondo: largo e autorevole è il fronte di chi esprime riserve e persino leva allarmi per decine di migliaia di processi al macero, da parte di magistrati di frontiera e del Csm che è pur sempre un organo costituzionale. Se lo si considera a tal punto delegittimato, si abbia il coraggio di mettere a tema la sua soppressione.
Terzo: l’eloquenza e la durezza delle statistiche giudiziarie attestano come la tempistica di sedi importanti è largamente al di sopra di quella fissata dalla Cartabia. Che si riesca, d’incanto, a ridurla drasticamente sembra un atto di fede.
Quarto: si tagliano i tempi… all’ingrosso. Oltre alla gravità dei reati, si dovrebbe considerare il grado di complessità dei processi, che è parametro diverso. Lo fa la Corte europea dei diritti tanto impropriamente chiamata in causa nella circostanza.
Quinto: a proposito di Ue, si è enfatizzato il nesso con le risorse del Recovery. Mi torna con riguardo alle cause civili, assai meno per il penale. Per anni si è sostenuto il contrario e cioè che a inibire investimenti in Italia fossero semmai l’illegalità e la diffusione della criminalità organizzata in vaste aree del nostro territorio. Esattamente il fronte dal quale si levano gli allarmi dei magistrati più impegnati.
Sesto: i limiti inscritti nel mandato del governo in carica. Essenzialmente: vaccini e Recovery. Si aggiunge convenzionalmente: riforme. Ma riforme effettive esigerebbero visione politica (sottolineo: politica) e maggioranze parlamentari coerenti e omogenee. Quali palesemente non sono quelle del governo in carica. Eppure si ha persino la pretesa di tacitare ogni distinguo da parte delle forze politiche. Diktat a troncare ogni discussione nei quali contraddittoriamente si distinguono soloni della democrazia parlamentare di stampo liberale.
Settimo: si stigmatizza il corporativismo dei magistrati, il carattere lasco della loro disciplina interna. Pensando al caso Palamara, vogliamo paragonare magistrati e politici, quanto a misure disciplinari? La radiazione di Palamara e le dimissioni di svariati membri del Csm, con il nulla di nulla di sanzioni comminate dai rispettivi partiti a Ferri e Lotti? Quest’ultimo tuttora capo della corrente maggioritaria nei gruppi parlamentari Pd?