Il giorno dopo l’intesa che ha evitato il burrone, tutti (ri)dicono di aver vinto o almeno pareggiato. Ma nel venerdì in cui la Commissione Giustizia della Camera approva il nuovo testo della riforma Cartabia, si pensa già ad altro. Perché l’accordo sulla riforma della giustizia, quel corpus di norme che negli annunci doveva nobilitare il governo Draghi e che nei fatti per poco non lo ha fatto sbandare, cambierà il percorso di alcuni protagonisti della partita e inciderà su certe dinamiche nella maggioranza. Per esempio potrebbe pesare sulla madre della riforma, quella Marta Cartabia che aveva il curriculum e un ottimo mentore (Sergio Mattarella) per ambire al Quirinale. E invece “ora quel Palazzo se lo può scordare” ringhiano fonti sparse del M5S, ed è la stessa lettura che – con altri toni – rimbalza da altri esponenti politici. Anche per effetto di un episodio quantomeno sgrammaticato. Nel dettaglio, giovedì notte in Senato la presidente Casellati ha stralciato dal decreto Reclutamento un emendamento del 5Stelle Gianluca Castaldi, votato all’unanimità dai partiti, per prorogare quattro tribunali abruzzesi.
Una norma cui Cartabia, in qualità di Guardasigilli, aveva dato parere negativo. E che Casellati ha cancellato tra grandi proteste: secondo diversi senatori, dopo averne già chiesto il ritiro nella capigruppo spiegando che anche il Quirinale aveva “dubbi” sul testo. Così dentro Palazzo Madama si è diffusa, trasversale, la sensazione di una filiera che non funziona granché ai piani molto alti del governo. Mentre i magistrati continuano a picchiare senza sosta sulla controriforma, con l’Anm del Piemonte che parla di “possibile ecatombe di procedimenti” e quella di Palermo che evoca “la falcidia dei processi per reati ambientali”. Potrebbero essere nodi perfino per Draghi, irritato – sussurrano – con la ministra.
Certo, il premier ha vinto ancora, perché domani la riforma andrà in Aula alla Camera, solo due giorni in ritardo rispetto alla sua tabella di marcia. Ma per la Cartabia è un’altra storia. “A oggi per il Colle ci sono solo due possibili nomi, Sergio Mattarella e Mario Draghi” ragiona un big del M5S. Convinto che “la partita sia complicatissima, e per questo una terza opzione dovrà per forza venire fuori”. “Anche perché – aggiunge – se Mattarella viene rieletto non potrà essere un presidente temporaneo, considerato anche che le prossime Politiche potrebbe vincerle il centrodestra. Mentre se eleggono Draghi, si andrà per forza a elezioni anticipate. E chi potrebbe volerle?”. Forse, ma è da dimostrare, solo quel Giuseppe Conte che ora deve far deglutire l’intesa sulla riforma ai suoi. Compito più semplice alla Camera, mentre in Senato c’è ancora nervosismo, anche se il nocciolo duro dei contiani è proprio a Palazzo Madama. “Di sicuro nella trattativa Giuseppe ha dimostrato di essere un capo” ammettono vari grillini. Tanto da reggere il braccio di ferro soprattutto con Cartabia e di sopportare molteplici pressioni esterne (raccontano di un confronto piuttosto duro con il ministro dem Andrea Orlando, giovedì). Però fuori a pungere c’è la Lega, il partito di Giancarlo Giorgetti. Se si è chiuso l’accordo – e lo ammettono anche i 5Stelle – lo si deve anche alla sua mediazione. Ma il numero due del Carroccio ha già presentato il prezzo al M5S: “Questa volta abbiamo inghiottito le vostre modifiche, ma in seguito sarete voi a dover ascoltare le nostre richieste”.
Non è un dettaglio, nel giorno in cui il leghista Massimo Garavaglia sul Messaggero invoca “modifiche al Reddito di cittadinanza che frena l’economia, già nella prossima legge di Bilancio”. Parole per innervosire il M5S e sminuire il frutto della mediazione di Conte, certo. Ma il reddito tornerà sul tavolo e l’ex premier e i big grillini lo sanno. “Dovremo giocare d’anticipo, presentando proposte per migliorare la legge” è l’idea di Conte e dei maggiorenti. Anche perché la legge di Bilancio sarà un campo di battaglia. “Di scostamenti di bilancio non ce ne saranno più e bisognerà tagliare”. Quanto, si vedrà. E sai quante mediazioni.